Nel dicembre 2023, da uno dei siti americani dediti alla denigrazione di papa Francesco, sono state lanciate due notizie. La prima era che il pontefice aveva indetto i lavori per una riforma del conclave: più che una notizia, una non-notizia, giacché la manutenzione dell’istituto conclavario nei secoli è stata comune, e nel corso degli ultimi due quasi una costante, a garanzia che nessuno potesse impugnare l’elezione lamentando l’obsolescenza delle norme. La seconda era che il papa avrebbe inserito nel conclave (come ha fatto nel sinodo dei vescovi) altre figure non cardinalizie per aumentare la “rappresentatività” del corpo elettorale: novità che significherebbe l’abbandono della regola gregoriana che dal 1049 riserva al solo clero “cardinale” di Roma l’elezione del vescovo dell’Urbe, e trasformerebbe la scelta del successore di Pietro nel casting per un Padre generale o nel ceo di una multinazionale cattolica – che non esistono.
Di queste vociferate riforme nulla è uscito da allora a oggi. Il maremoto provocato da Fiducia supplicans – l’istruzione della Dottrina della fede sulla benedizione delle coppie “irregolari” che passerà agli annali come inutile (chi lo faceva continuerà, chi è ostile la negherà), inefficace (se l’obiettivo era silenziare il dibattito nel Sinodo tedesco questo è stato mancato), controproducente (la descrizione dell’amore fra persone dello stesso sesso fornita in quell’atto è più astiosa e ingiusta di quella del catechismo) e volgare (la raccomandazione di contenerla in 15 secondi che è un sesto di quella dedicata a una stalla) – fa pensare che, se anche la superficialità ecclesiologica di qualcuno dei consiglieri del papa avesse accarezzato l’idea, non è in questi mesi del 2024 che si potrà sostituire il conclave con altra istituzione.
Eppure – è un parere che ho già espresso su “The Tablet”e sulle pagine cartacee di questa rivista – una riforma del conclave che ne alteri non la composizione, le funzioni, le maggioranze, ma i tempi sarebbe assai necessaria per ragioni che sono sotto gli occhi non solo degli osservatori più attenti.
Il ritorno della guerra condotta in prima o seconda persona dalle superpotenze del Novecento – l’invasione russa dell’Ucraina dopo otto anni di guerra, il pogrom di Hamas in Israele, seguito da un’operazione condotta dalle forze di difesa israeliane con uno spaventoso numero di vittime civili che Hamas trasforma in propaganda di reclutamento – ha ricordato a tutti un tratto del cattolicesimo romano sovente dimenticato. E cioè che, in un mondo nel quale si fanno sempre più vistose le ambizioni a un’egemonia di scala sia regionale sia globale, la Chiesa cattolico-romana, più e più massivamente di altre Chiese o comunità di fede, costituisce un’antagonista naturale e un oggettivo intralcio ai sovranismi neo-imperialisti. A fronte di politiche di potenza basate sulla deterrenza atomica e su quella tecnologica, la Chiesa di Roma rappresenta una realtà per sua natura disarmata ma globale, con una presa che, ancorché ridotta dai processi di secolarizzazione e non ancora adattata alla società post-secolare, rimane in termini quantitativi e qualitativi incomparabile rispetto ad altri universi, come quello sunnita, nel quale si sono insediate pulsioni terroristiche che richiedono tempi di eradicazione assai lunghi ed elaborazioni teologiche di coesione oggi ancora embrionali.
La Chiesa cattolico-romana, più e più massivamente di altre Chiese o comunità di fede, costituisce un’antagonista naturale e un oggettivo intralcio ai sovranismi neo-imperialisti
Nel lungo corpo a corpo fra la modernità e il papato inteso come vertice di una cristianità perduta, le istituzioni cattoliche romane avevano sviluppato una loro cultura del nemico, fatta di condanne, anatemi, scomuniche, dottrine sociali e dogmatiche che hanno a lungo isterilito e sostituito l’annuncio forte e semplice del Vangelo. Ma finita quell’era – per consunzione della modernità come ideologia espansiva e riforma del papato grazie al Concilio Vaticano II e alla sua ricezione – la Chiesa di Roma non ha dedicato molta attenzione a costruire gli strumenti per difendere non più il proprio potere temporale o affermare le nostalgie di un’immaginaria christianitas, ma la propria fisionomia istituzionale.
Anche se quella che esce dal XX secolo non è la Chiesa “serva e povera” sognata da Marie-Dominique Chenu, essa ha certo dismesso l’alterigia morale del trionfalismo cattolico – che era non il freno, ma l’incubatore delle più disinvolte frequentazioni finanziarie e delle più devastanti omertà verso la quota di stupri su minori dei quali si sono macchiati chierici cattolici. Eppure, proprio la legislazione ecclesiastica su quella che con un eufemismo rivelatore viene chiamata “pedofilia” ha creato non un’arma complessa, ma un pulsante col quale chiunque – le vittime di violenze impunite, autorità ecclesiastiche in spietata concorrenza, i più classici nemici della chiesa – può ottenere l’ostracismo di chicchessia, lasciando al tempo il compito di decantare accuse fondate o infondate e a Dio di risarcire gli innocenti e sanzionare gli impuniti.
È per questo che una riforma del conclave è sempre più urgente e necessaria: non ci vuole infatti molta fantasia a capire che il collegio cardinalizio dovrà proteggere l’eletto dal rischio che egli venga delegittimato da un’accusa costruita per dividere i porporati che impugneranno l’elezione di una persona indegna da quelli che invece riterranno l’elezione comunque valida, almeno per presunzione di innocenza.
Il conclave, infatti, nel suo percorso storico ha un obiettivo, che non è eleggere il più santo, né il più dotto, e nemmeno il più prudente (come voleva la vecchia regola monastica che per la scelta dell’abate raccomandava “si doctus doceat, si pius oret, si prudens regat”). Prima i riformatori gregoriani dell’XI secolo restringono la base degli elettori ai cardinali, poi le autorità civili li costringono agli arresti nel seggio dalla metà del XIII secolo – al solo scopo di garantire una successione incontestata e incontestabile: nonostante le defaillances degli inizi e il disastro dello scisma d’Occidente, l’istituto conclavario, dunque, continua a funzionare proprio per questo.
Ha lo stesso scopo l’usanza che – dopo le incisive riforme del 1215, del 1620 e del 1903 – fa sì che molti papi aggiornino le norme conclavarie con i provvedimenti e i fini a cui accennavo poc’anzi. Per lo più si tratta di ritocchi di dettaglio sul calcolo della maggioranza, ma a essi si aggiungono anche decisioni più rilevanti come quella che fissa che, qualunque sia il luogo in cui il papa muoia o si dimetta, la sede del conclave resti la Sistina con il Giudizio universale a far da sfondo alle riprese televisive antecedenti all’extra omnes e al voto; più importanti, ai nostri fini, le norme di Pio IX che rendono valida l’elezione anche in caso di simonia: esse, infatti, non volevano giustificare quel delitto, ma mettere il conclave e l’eletto al riparo da un’accusa che i nemici di allora avrebbero potuto costruire o agitare per disarticolare il servizio petrino nella Chiesa.
Che oggi quel rischio – con attori in fondo meno simpatici dei garibaldini, massoni e mazziniani temutissimi nell’Ottocento – sia moltiplicato dai social, dall’IA e dalla potenza di calcolo non ha bisogno di lunghe spiegazioni. Raccogliere la delusione della madre di un bambino violato da un chierico che abbia tentato di approcciare senza successo il futuro papa quando era vescovo chissà dove o creare ex nihilo un caso ricalcato sui tanti episodi in cui la superficialità dei vescovi davanti alle aggressioni è diventata negligenza, la negligenza omertà e l’omertà l’eresia che difendeva una ragion di Stato chiesastica che non esiste e non può esistere nel cristianesimo è questione di volontà e di mezzi; volontà e mezzi che possono nascere dentro gli Stati o in quelle grandi compagnie che si muovono come superpotenze del calcolo e possono mettere al servizio di poteri anche occulti quel servilismo megalomane che abbiamo visto all’opera in diverse vicende pubbliche.
Il conclave, un’istituzione vecchia di otto-dieci secoli, è in grado di difendere la Chiesa da un attacco pianificato di questa portata? È questo il dubbio che il papa ben conosce, e che non ha una risposta facile. Forse no, se si trattasse dell’elezione di un ecclesiastico che non sa nemmeno di aver trascurato un dovere in tempi remoti; forse sì, se il collegio cardinalizio, che giura fedeltà al neoeletto pontefice, sapesse rimanere solidamente compatto qualunque cosa accada e, per parafrasare la massima più celebre di Mario Draghi, “Whatever it takes: and believe me, it will be enough”.
La stessa durata straordinariamente breve dei due conclavi del 2005 e del 2013 dice che un collegio cardinalizio privo di connessioni interne ha la tendenza ad arrendersi abbastanza presto al candidato che cresce più rapidamente
Con le norme vigenti, però, i rischi si moltiplicano: la stessa durata straordinariamente breve dei due conclavi del 2005 e del 2013 (uno durato ventiquattr’ore, l’altro tre ore in più) dice che un collegio cardinalizio privo di connessioni interne (di buona o cattiva lega) ha la tendenza ad arrendersi abbastanza presto al candidato che cresce più rapidamente nel succedersi della unica votazione del vespro del primo giorno e nei quattro scrutini che dal giorno dopo si susseguono, instillando nei porporati l’idea che un’attesa o uno stallo verranno lanciati dalle breaking news della Cnn come una “divisione” da smentire. Nel 2005, ad esempio, pur avendo raggiunto Bergoglio circa un terzo dei voti, sbarrando così la strada a Joseph Ratzinger che a pranzo si presentò col dolcevita nero che diceva della sua rinunzia al braccio di ferro, fu il cardinal Carlo Maria Martini a chiedere al teologo tedesco di concedere un’altra votazione e a persuadere chi non conosceva Bergoglio a votare per il cardinale decano. Nella prima votazione del pomeriggio, Benedetto XVI superò i due terzi: durata totale del conclave, 24 ore. Nel 2013 l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, raccolse alla prima votazione la metà dei voti che pensava di avere: e l’argomento che chi non sa distinguere fra un cardinale sincero e uno bugiardo non può fare il papa, gli fu fatale, così che il cardinal Bergoglio poté salire dalla dozzina di voti della prima sera fino ai due terzi abbondanti che hanno fatto di lui papa Francesco: durata del conclave, 27 ore scarse.
Due andamenti diversi, ma comunque consumatisi in un tempo molto stretto nel quale la separazione degli elettori dal mondo esterno non ha certo avuto modo di diventare confidenza, e dalla quale è trapelata già alle 14.00 l’ascesa del vescovo di Buenos Aires.
Una soluzione semplice e lineare c’è, e consisterebbe in un diradamento degli scrutini: il secondo scrutinio della mattina e il secondo del pomeriggio, infatti, sono entrati per sostituire il voto per accesso, troppo complicato da gestire; toglierlo, e se mai togliere anche lo scrutinio del mattino o addirittura lasciare il giorno di pausa, oggi previsto solo in caso di uno stallo prolungato, dopo ogni giorno di votazione, garantirebbe un tempo di conversazione e confronto interno al collegio quanto mai necessario per addivenire a un capitolato elettorale più condiviso e per lasciare il tempo ai candidati di ritirarsi, nella fondata previsione che qualcuno potrebbe usare informazioni vere o verosimili contro di essi.
Un conclave con un voto al giorno e un giorno di pausa potrebbe far nascere qualche ironia sui passatempi dei porporati, immaginati da Nanni Moretti nel suo Habemus papam, ma darebbe tempo alla decantazione delle opinioni e degli umori: in un conclave come quello del 2005 vorrebbe dire impiegare dieci giorni per arrivare alla maggioranza dei due terzi, di sicuro decomprimendo la tendenza mediatica a descrivere il conclave con le tinte di una primaria americana, fatto di trucchi, denari e costrutti ideologici.
Una dilazione dei tempi, infine, consentirebbe di spezzare in due l’acceptasne: quando infatti termina uno scrutinio in cui un cardinale ha superato i due terzi dei voti, gli si chiede pubblicamente se accetta l’elezione svoltasi canonicamente (“acceptasne?”, appunto) e poi il nome; in un conclave lento l’eletto potrebbe avere un tempo più lungo, anche una notte, per decidere e se mai consultarsi.
Farà papa Francesco una riforma? Probabilmente sì, per le ragioni indicate. Come la farà? Difficile a dirsi: i canonisti ai quali ha affidato atti di riforma molto importanti non sembrano avere il talento ecclesiologico di un Eugenio Corecco e nemmeno il virtuosismo giuridico di Mario Francesco Pompedda. Ma se nulla si farà bisogna sperare che nessuno dei Paesi belligeranti e nessuno dei grandi players del mercato delle notizie manometta un congegno che potrebbe resistere o andare incontro, come fu nel 1378, a un’impasse fatale all’unità della Chiesa.
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