La decisione della Commissione europea per il Piano di ripresa economica (Next Generation EU) per rispondere alla gravità della crisi da Covid-19 dal punto di vista economico e sociale rappresenta un fatto storico, perché per la prima volta la Commissione decide di effettuare un intervento pluriennale con un debito garantito in modo solidale e basato sul bilancio dell’Unione europea. È quindi un’occasione da non sciupare con maldestre modalità di utilizzo dei fondi disponibili per il nostro Paese e che richiede un ampio dibattito pubblico al quale bisogna invitare non solo le forze sociali, ma anche il mondo della ricerca e l'intera società civile.
Innanzitutto, è necessario prendere atto che il sistema economico europeo potrà uscire dalla crisi da Covid-19 solo con un cambiamento del modello di sviluppo, che dovrà essere prioritariamente basato sulla soddisfazione dei bisogni dei cittadini europei. L’Europa non potrà seguire un modello export-led, perché circa il 90% dello sbocco di mercato è determinato dalla domanda interna europea. L’insufficienza della domanda interna, determinata dalla costante e continua caduta degli investimenti e dal basso tasso di occupazione (specie nei Paesi del Sud Europa) ha indebolito la domanda di consumi privati e ha determinato la lunga stagione di basso livello di reddito, notevolmente al di sotto del reddito potenziale europeo già prima della crisi da Covid-19. Il surplus di esportazioni di due Paesi (Germania soprattutto, ma anche Italia) ha ulteriormente indebolito la domanda interna europea. Il resto è stato determinato dalle scelte di politica economica europea, basate sul principio dell’austerity, che hanno ulteriormente indebolito la situazione economica innescando un progressivo impoverimento in larghe fasce della popolazione europea.
Il sistema economico europeo dovrà pertanto orientarsi prevalentemente alla domanda interna (anche in considerazione del livello particolarmente elevato della popolazione dell’Eu a 27- 447 milioni) che dovrà crescere per consentire un adeguato livello di vita e dare garanzia rispetto alla sicurezza sanitaria, alimentare, ambientale, a prendersi cura delle persone e del territorio (anche contro i rischi delle catastrofi naturali) oltre che alla produzione di energia da fonti rinnovabili. In questa direzione spingono le recenti strategie europee (dal Next Generation EU al Green New Deal). Il processo di ristrutturazione economica darà spinta sia a settori a elevato contenuto di ricerca e innovazione sia a settori ad alta intensità di lavoro, con evidenti ripercussioni sull’aumento dell’occupazione, elemento indispensabile per un miglioramento della qualità della vita in Europa.
La seconda questione riguarda l’approccio delle politiche industriali e di sviluppo che dovranno creare condizioni di domanda crescente (pubblica e privata) e le corrispondenti decisioni dal punto di vista dell’offerta, per garantire, attraverso gli investimenti, un coerente cambiamento della struttura produttiva, perché solo in questo modo si riuscirà a rendere efficiente la spesa pubblica, che dovrà minimizzare il ricorso a importazioni dall’esterno e garantire i moltiplicatori di reddito e occupazione, oltre a favorire l’innovazione. Ciò renderà realizzabili non solo gli investimenti pubblici, ma anche gli investimenti privati che troveranno un adeguato sbocco di mercato sia per gli effetti moltiplicativi sia per la complementarietà delle attività. La politica di sviluppo per realizzare il nuovo modello dovrà privilegiare alcuni settori e filiere cruciali non solo per gli effetti su consumi e investimenti finali, ma anche per la capacità di generare sequenze di investimenti e di processi innovativi con ripercussioni in termini di accumulazione di nuove competenze tecniche e professionali generate dai processi di interazione e apprendimento tra i partner (pubblici e privati) coinvolti. Tutto ciò non si realizza con una decisione di spesa o con la distribuzione dei fondi pubblici per settori o ministeri ma attraverso un adeguato metodo di lettura e interpretazione delle dinamiche possibili e delle competenze esistenti oltre che di programmazione e negoziazione degli interventi da realizzare.
La terza questione riguarda in modo specifico il metodo da utilizzare per costruire un programma perseguibile e realizzabile. La politica industriale dovrà seguire una logica operativa che lavori contemporaneamente sull’aumento della domanda e sulle condizioni di cambiamento della struttura produttiva per garantirne stabilmente la coerenza. Successivamente, si porrà la questione della selezione dei progetti e degli ambiti di intervento (dal settore sanitario e dalle fonti energetiche alternative alla ristrutturazione del sistema dei trasporti e alla cura del territorio), privilegiando investimenti in settori e filiere con elevati moltiplicatori di reddito e di occupazione. In terzo luogo, bisognerà sviluppare la capacità di far lavorare congiuntamente operatori pubblici e privati nel raggiungimento degli obiettivi dei settori prescelti, così da garantire una certa coerenza tra gli investimenti da effettuare: gli investimenti iniziali garantiscono la realizzabilità dei successivi, avviando i processi produttivi che alimenteranno produzioni e investimenti complementari. Ciò significa costruire una visione del futuro dei settori chiave selezionati, così da poter realizzare gli obiettivi previsti attraverso processi decisionali tra loro connessi. Vale a dire individuare le opportunità, disegnare potenziali direzioni nella ricerca tecnologica, definire cosa farà l’operatore pubblico e cosa l’operatore privato. Non sembri cosa straordinaria: è ciò che si è fatto in Italia negli anni della programmazione economica con Giolitti e Ruffolo (ed economisti come Fuà e Sylos Labini) e che si fa normalmente in Francia (nelle esperienze dei pôles de compétitivité da oltre 15 anni e nel confronto sistematico tra dirigenza pubblica, imprese private e mondo della ricerca e dell’università) e in Germania (anche grazie alla rete decentrata delle fondazioni private di ricerca e formazione, Istituti Max Planck e Fondazioni Fraunhofer e Steinbeis, che lavorano in sintonia con le istituzioni pubbliche).
La quarta questione riguarda il modello di governance e il ruolo delle Regioni e degli enti locali, in quanto una notevole parte degli investimenti del Next Generation EU dovrà essere organizzata e gestita a livello regionale e territoriale, sviluppando la capacità di co-progettazione in cui le comunità territoriali vengono accompagnate nel processo di progettazione dagli Uffici tecnici dei livelli di governo sovraordinato. Anche su questo abbiamo molto da imparare dagli altri Paesi europei. Basti pensare alla recente ristrutturazione delle Regioni in Francia, che ha determinato non solo un forte accorpamento ma ha anche modificato definitivamente la distribuzione dei compiti tra livelli di governo. Ora le Regioni francesi hanno competenze sulle scelte di sviluppo economico oltre che sulla pianificazione territoriale; le Regioni francesi e tedesche ora gestiscono direttamente (by-passando il livello nazionale) le risorse dei fondi strutturali europei.
Quando inizieremo a parlare di questi temi nel nostro Paese? Credo che il Next Generation EU (o Recovery Program) possa essere l’occasione per affrontare questi argomenti cruciali per lo sviluppo e il benessere collettivo delle nostre popolazioni.
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