Da tempo assisto con sconcerto, sia in Germania sia in Europa, alla persistenza dell'idea in base alla quale, tanto politicamente quanto dal punto vista scientifico, la razzificazione come principio strutturale globale determinerebbe, automaticamente, l’abbandono dell’analisi di classe. Come se le due questioni si escludessero a vicenda. Spesso, proprio nelle cerchie più progressiste, questa idea induce a credere che la ragione della incessante crisi dei movimenti di sinistra sia da ricercare proprio nel presunto abbandono della questione della classe come categoria centrale di analisi.
Con la vittoria elettorale di Donald Trump – ma anche prima, grazie all’impressionante presenza mainstream nel discorso pubblico europeo di posizioni razziste e nazionaliste, inclusi i continui successi elettorali di partiti della destra estrema – il come affrontare il razzismo in maniera attiva è divenuto centrale per una sinistra che si vede dal 1989 sempre sulla difensiva. In Europa, come anche negli Stati Uniti, la cosiddetta politica dell’identità è questione controversa ma cruciale.
Nella sinistra bianca si continua a chiedere di porre fine alla presunta predominanza di «interessi speciali» incarnati dalle posizioni di femministe, queer, ma soprattutto persone di colore: tali interessi avrebbero indebolito e diviso i movimenti progressisti perché incapaci di integrarsi con quelli della maggioranza. Secondo questa impostazione, è giunto il momento di rimettere al centro dell’analisi la classe come categoria globale e universale, mentre «razza» e «genere» resterebbero contraddizioni secondarie.
Questa dicotomia tra analisi di classe e politica dell’identità presuppone che una critica anticapitalista non solo non debba ma non possa nemmeno tener conto di criteri di differenziazione come razzificazione e genere. Talune posizioni possono essere lette, credo, come un proseguimento di una lunga tradizione di lotte interne alla sinistra; ma penso ci si qualcosa in più, vale a dire un voler restare fedeli alla, solo apparentemente criticata, «teoria del colore», che è invece parte di una politica identitaria, bianca e patriarcale che deve essere chiamata per nome e decostruita se si vuole finalmente prendere in considerazione gli interessi della maggioranza reale. Questo è esattamente il compito della triade razza, classe e genere che emerge dal femminismo nero.
All'interno della sinistra tedesca, l'uomo bianco è ancora visto come un rappresentante paradigmatico dell’autentica classe operaia, che era ed è al centro dell’analisi marxista. Le donne o le persone di un’altra etnia sono viste come una sorta di aggiunta, una deviazione dalla norma: possono, ma non devono, essere prese in considerazione. Ciò non corrisponde, tuttavia, alla realtà di un’economia globalizzata in cui il lavoro precario è svolto principalmente da donne di colore colpite in modo maggiore dalle conseguenze delle crisi, come pandemia, cambiamenti climatici o guerre.
In realtà, se si tengono effettivamente presente tutti quelli la cui forza lavoro era sfruttata a esclusivo beneficio dell’economia europea, l’uomo bianco non ha mai costituito la maggioranza della classe operaia europea. La maggior parte della classe operaia europea dal XVIII fino al XX secolo era formata dalle persone di colore nelle colonie che lavoravano non per la propria economia ma per quella europea. Che questo fatto sia completamente ignorato quando si parla di classe è solo uno dei problemi creati dalla soppressione della conoscenza sulle conseguenze del colonialismo in Europa. Chiunque parli con simpatia dell’emarginazione dei lavoratori bianchi, come ha fatto la maggior parte della sinistra bianca dopo la vittoria elettorale di Trump, o dei migranti che rubano posti di lavoro, deve anche ammettere che la classe operaia bianca ha beneficiato dello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici non bianchi. E questo sin dall’inizio del capitalismo: non ci sarebbe stata la rivoluzione industriale senza il colonialismo.
La Germania non fa eccezione. All’inizio del XX secolo, quando lì i lavoratori lottavano per la giornata di otto ore, a quelli della colonia tedesca del Togo accusati di furto venivano mozzate le mani. Sono cose che non possono essere separate: che i lavoratori europei abbiano conquistato più diritti che in qualsiasi altra parte del mondo non è ascrivibile alla superiorità della civiltà europea o alla forza dei sindacati, ma al fatto che le nazioni europee, anche se accettavano di effettuare delle concessioni, potevano ancora rifarsi su una classe operaia coloniale senza diritti e terribilmente sfruttata. Se i lavoratori delle colonie europee avessero avuto gli stessi diritti dei loro colleghi in Europa, il nostro mondo oggi sarebbe completamente diverso. E se ci occupiamo di giustizia sociale, dobbiamo porre queste correlazioni al centro delle nostre analisi.
Per capire perché le donne europee razzificate sono colpite in modo sproporzionato dalla disoccupazione, dalla precarizzazione e dalla criminalizzazione, non basta né un’analisi di classe che considera il razzismo come una contraddizione secondaria, né un’analisi che interpreta il razzismo innanzitutto come un fenomeno culturale che, per di più, avrebbe nel contesto europeo un ruolo subordinato. Sebbene sia innegabile l’origine del concetto di razza nel pensiero europeo, come pure il fatto che l’Europa abbia utilizzato questo concetto per stabilire un sistema coloniale globale basato su gerarchie e antagonismi razziali che costituiscono ancora la base del capitalismo globale neoliberista, resiste ostinatamente l’idea che l’Europa sia per così dire «daltonica», immune al razzismo, che la «razza» e il razzismo siano di casa fuori dal continente (soprattutto negli Stati Uniti) e che siano state portate in Europa da altri, vale a dire proprio da persone razzificate. Siamo al paradosso per cui si afferma «non c’è razzismo se non ci sono razzificati», anziché «non c’è razzismo se non ci sono razzificatori» e cioè i razzisti...
Sebbene sia innegabile l’origine del concetto di razza nel pensiero europeo, resiste ostinatamente l’idea che l’Europa sia per così dire "daltonica", immune al razzismo
In questo modo di ragionare è implicita, inoltre, l’idea che l’Europa sia naturalmente «bianca» (e cristiana), che i non bianchi e i non cristiani (o socializzati non cristiani) con la loro presenza disturbino un equilibrio naturale e un processo di adattamento, di domanda di integrazione, le cui regole sono naturalmente determinate da coloro il cui diritto di appartenenza non è in discussione.
Il risultato di questa narrazione è che la razzificazione, come processo di normalizzazione, resta in gran parte innominabile all’interno del discorso europeo della dialettica illuministica. Appare come un prodotto dell’incontro coloniale con l’altro o come un prodotto di scarto delle economie capitaliste. Tuttavia, come hanno dimostrato Cedric Robinson, Leerom Medovoi e altri, la razzificazione in Europa è iniziata prima dell’avvento del colonialismo e del capitalismo. Sia il capitalismo sia il razzismo moderno sono emersi dalle strutture di potere europee preesistenti: lo sconvolgimento politico ed economico prodotto dal passaggio dal feudalesimo al capitalismo ha determinato anche la razzificazione di gruppi già emarginati come ebrei, musulmani, rom e sinti. Il razzismo è iniziato con la riorganizzazione delle popolazioni europee, inclusa l’emarginazione di una parte come necessariamente «non europea».
Non c’è mai stata una popolazione europea «bianca» omogenea: l’identità «bianca» è servita da sempre per unire gli europei e per gerarchizzarli. Ha funzionato come categoria transnazionale che ha unito i gruppi europei, consolidandosi poi nel colonialismo, che non è mai stato solo un progetto nazionale ma è sempre stato giustificato dalla superiorità della civiltà europea bianca: le popolazioni colonizzate sono state così inserite in un modello preesistente di razzificazione, prima solo europeo poi divenuto globale, in cui il bianco e il nero erano costruiti come opposti assoluti. Contemporaneamente, equiparare bianco ed europeo serviva anche a gerarchizzare l’Europa stessa: mentre alcune popolazioni erano emarginate come non bianche e quindi non europee, altri gruppi erano considerati bianchi con riserva, anche se non esclusi, grazie alla loro vicinanza a presunti gruppi non bianchi/non europei, e dovevano dimostrare il loro diritto di appartenenza. Solo apparentemente la mancanza di chiarezza delle categorie razziali è segno della loro instabilità o inefficacia: fa parte, al contrario, del loro funzionamento e della loro flessibilità e ne garantisce l’efficacia.
L’identità "bianca" è servita da sempre per unire gli europei e per gerarchizzarli. Ha funzionato come categoria transnazionale che ha unito i gruppi europei, consolidandosi poi nel colonialismo
L’analisi completa del sistema globale, che Cedric Robinson e altri hanno soprannominato «capitalismo razziale», è stata finora condotta principalmente al di fuori dell’Europa, non ultimo da femministe di colore, il cui approccio è spesso equiparato alla politica dell’identità. «Donne di colore» è, infatti, già una categoria multi-identitaria, caratterizzata da numerose posizioni, non sempre compatibili, che tuttavia, o proprio per questo, è divenuta fondamentale per forme di resistenza politicamente attive, mentre mette a fuoco compatibilità e incompatibilità:
«L'intersezionalità può essere utilizzata in modo più ampio come mezzo per regolare la tensione tra il riconoscimento di identità multiple e la necessità continua di un’azione incentrata sul gruppo […] [Un]grande progetto in corso per le persone oppresse […] sta pensando a come si muove il potere focalizzato su determinate categorie e diretto contro altre. Questo progetto tenta di mostrare questi processi di subordinazione e le diverse forme in cui vengono vissuti» [fonte].
Qui nasce anche l’idea di Queer of Color Critique, che intendo come una metodologia per riscoprire il concetto di «queer» come analisi intersezionale materialistica, focalizzandosi non sull’identità ma sui processi di costruzione di posizioni, normative e non normative, che concentrano il potere su specifiche categorie. Questo significa che le posizioni non sono mai assolute, ma sempre relazionali: posso essere subordinata in un certo contesto e privilegiata in un altro. Si tratta di una comprensione della posizione fondamentale per contrastare efficacemente i tentativi di scissione. D’altra parte, simili costellazioni relazionali non sono accidentali o autodeterminate, ma si combinano per formare strutture riconoscibili che costruiscono un sistema gerarchico globale, la cui decostruzione riguarda in definitiva «una critica dei rapporti di produzione e della loro ideologia» da una prospettiva che si libera da secoli di politica dell’identità bianca ed europea, nella quale utilizza come quadro analitico posizioni emarginate in particolare di donne razzificate e persone queer di colore.
[Questo articolo rielabora il testo dell’intervento pronunciato dall'autrice per l’apertura del Congresso federale delle Neue deutsche Organisationen nel giugno 2022, dal titolo KOMM.UNITY! Di che classe è il razzismo?. Qui è possibile scaricare il manifesto in inglese.]
Riproduzione riservata