Il cantiere di Rabat. Malgrado i timori della vigilia, le marce organizzate domenica 20 marzo 2011 nelle maggiori città del Marocco si sono svolte all’insegna dell’ordine e della tranquillità. Le decine di feriti negli scontri di domenica 13 marzo a Casablanca facevano infatti presagire una sfortunata conclusione per quella che voleva essere la replica, a un mese di distanza, delle manifestazioni indette dal movimento di giovani marocchini costituitosi sulla scia degli eventi di Tunisia e Egitto, denominato, appunto, Movimento 20 Febbraio.Un grande esempio di partecipazione democratica che ha visto sfilare per le vie di Casablanca, Rabat, Fès, Tangeri, Agadir, Oujda, migliaia di cittadini e attivisti, nonché alcuni esponenti della scena politica nazionale, le cui cifre definitive sembrano essere stimate per difetto. A Rabat, gli organizzatori del Movimento 20 Febbraio si sono dati appuntamento alle 10 di mattina nella grande Piazza Bab El Had, per poi sfilare in un corteo chiassoso ma sereno lungo l’arteria principale della capitale, il Boulevard Mohammed V, fino al Parlamento, dove verso le 14 la marcia si è dissolta. Tra gli slogan scanditi dai manifestanti o scritti sugli striscioni, diverse rivendicazioni a carattere politico, economico e sociale: «Il popolo vuole la caduta del dispotismo»; «Il popolo vuole la fine dell’impunità»; «Nessun referendum democratico senza libertà dei media»; «Vogliamo una democrazia parlamentare»; «Abbas dégage» (esortazione rivolta al primo ministro Abbas Al Fassi), nonché frasi contro esponenti dell’ingombrante e potente entourage del re Mohammed VI. Tra i cartelli esposti, «Stop Mawazine, people are poor» chiedeva la cancellazione del Festival Mawazine, una kermesse di musica internazionale giunta quest’anno alla sua decima edizione, che – grazie a cachet milionari – vedrà grandi artisti del panorama musicale dei cinque continenti animare per una settimana le notti di maggio della capitale. Un futile dispendio di denari pubblici che il regno non può permettersi, dicono i contestatori, vista la condizione di indigenza in cui versano ampi strati della popolazione del Paese.
Oltre al gruppo organizzatore, altre iniziative giovanili sorte e sviluppatesi attraverso Facebook hanno animato il corteo, come il Movimento “Baraka” (che in dialetto marocchino significa “basta”). Una parte significativa dei partecipanti era costituita, inoltre, dagli attivisti berberi, che non perdono occasione per rivendicare la riabilitazione della dignità della propria cultura e lingua, mettendo in bella mostra le colorate bandiere del movimento Amazigh. Una presenza, in particolare, non è passata inosservata, quella degli islamisti, con gli uomini barbuti e le donne completamente velate, come gli attivisti del partito Al Adl wal Ihsane (Partito di Giustizia e Carità), che continuano a denunciare il silenzio sulle sorti dei detenuti islamisti in Marocco. La stampa nazionale ha, infine, evidenziato come la partecipazione dei rappresentanti delle associazioni per i diritti dell’uomo fosse meno evidente rispetto alla prima marcia.
Tra i contrari alle manifestazioni, i più sostenevano, e continuano ad affermare, che si debba lasciare il tempo alle riforme annunciate dal re Mohammed VI nel tanto atteso discorso dello scorso 9 marzo. Un discorso senza dubbio epocale, ma che lascia dubbiosi non pochi cittadini del regno. Il re ha annunciato, infatti, una profonda riforma costituzionale come sviluppo della “consacrazione costituzionale della regionalizzazione avanzata”, il processo di riorganizzazione territoriale avviato nel gennaio 2010 tramite un precedente discorso al popolo. Se l’obiettivo è invocato a gran voce da gran parte dell’opinione pubblica, le modalità proposte suscitano la perplessità e la sfiducia di alcuni: ancora una volta, il sovrano ha annunciato la nomina di una commissione ad hoc per la revisione della Costituzione, affidandone la presidenza all’autorevole costituzionalista Abdeltif Mennouni. I lavori dovrebbero concludersi entro il mese di giugno per poi procedere alla ratifica attraverso referendum popolare. La disponibilità manifestata dal sovrano nell’aprire il “grande cantiere costituzionale”, dettata anzitutto dal timore che il malcontento popolare sfociasse in derive insurrezionali, potrebbe non essere sufficiente: gran parte dei manifestanti invoca una vera riforma costituzionale, espressione di un’autentica monarchia parlamentare e non una carta octroyée, concessa da un sovrano illuminato.
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