La questione sulle Unioni civili non si è affatto conclusa, come del resto era facile attendersi. Non tanto perché manca ancora il passaggio alla Camera, che peraltro non dovrebbe dare eccessivi problemi considerando i numeri di cui dispone il governo (che ormai si è intestato l’operazione), benché di questi tempi nulla possa essere dato per scontato. Quanto perché sembra mancare una forte volontà di chiudere in maniera civile un’annosa disputa. E ciò è molto preoccupante.

Tanto per fare un po’ di scena intellettuale, richiamiamo un vago parallelo. Quando il Partito comunista francese entrò in Francia nel governo del Fronte Popolare, nel 1936, si trovò il problema di governare una base che era abituata ai confronti muscolari col potere e che non aveva intenzione di cambiare atteggiamento anche col nuovo esecutivo guidato dal socialista Leon Blum. Fu allora che il leader del Pcf Maurice Thorez pronunciò la frase, divenuta poi famosa, «Bisogna saper concludere uno sciopero».

Anche oggi qualcuno dovrebbe levarsi e ricordare al nostro mondo politico e dei media, il quale tanto ama le diatribe senza fine, che «bisogna saper concludere un dibattito».

La soluzione a cui si è approdati in Senato circa il ddl Cirinnà ha il pregio di essere giunta a fissare un punto fermo nel rapporto fra normativa giuridica e nuovi istituti sociali fondati sulle convivenze basate su rapporti affettivi a base sessuale e paritaria (è questo che li distingue, ci perdoni il gretto Giovanardi, dal rapporto fra cane e padrone). Se questo sia o meno un «progresso» nella storia dell’umanità può essere considerato materia di valutazione, ma andrebbe fatto su basi razionali e realistiche e non su basi di fantasia. Abbiamo visto in passato, tanto per non smentirci nel fare gli intellettuali, sostenere per esempio che il rapporto schiavo/padrone poteva essere più ricco di umanità del rapporto proletario/capitalista. Non ci è mai parsa una grande argomentazione, anche se è perfettamente possibile che esistessero casi in cui era stato effettivamente così.

Nel nostro caso il problema è che alla bontà di una soluzione di equilibrio si rifiutano di credere in troppi, mettendo a rischio la tenuta del nostro Paese in un momento assai delicato. Come non era difficile prevedere che i pasdaran dell’uno e dell’altro fronte non disarmano e si stanno subito lanciando a riproporre la questione divisiva stralciata (l’adozione del figlio di un partner nelle copie omosessuali) in una nuova proposta di legge che dovrebbe riproporre l’intera questione del sistema di adozione dei minori.

Cercare di richiamare tutti a un sano realismo su un tema delicatissimo, che riguarda esseri umani particolarmente fragili e indifesi, è quasi fatica sprecata, ma noi lo facciamo lo stesso. Iniziamo col dire che è una leggenda l’immagine di orfanatrofi pieni che si vuoterebbero solo se si allargasse la platea di coloro che sono ammessi a essere genitori adottivi. Per fortuna in Italia gli abbandoni di figli alla nascita o nei primi anni di vita sono molto pochi e il numero di coppie eterosessuali che si offrono di dare loro una famiglia è tanto alto che la maggior parte di loro non trova soddisfazione e deve rivolgersi al «mercato» delle adozioni internazionali, che riguardano Paesi con gravi problemi di miseria. Presumibilmente il conferire il diritto di adozione a coppie omosessuali e anche a single andrebbe principalmente a incrementare quella via di acquisizione delle adozioni.

Il secondo problema è che stiamo parlando di soggetti che hanno subito una delle violenze più traumatiche per un essere umano: essere stati rigettati dalla propria madre. Un’esperienza che, come spiegano gli studi disponibili, il concepito avverte già nel grembo materno. Tutti coloro che hanno esperienza di questo mondo delle adozioni sanno benissimo che si tratta di ferite difficili da rimarginare, che richiedono grande stabilità psicologica nelle famiglie che adottano e una notevole disponibilità a un impegno tutt’altro che lieve. Per evitare che si creino situazioni ancor più strazianti (persone adottate e famiglie che li hanno accolti che finiscono distrutte da esperienze che non hanno saputo dominare) è bene conservare meccanismi che non facciano perno su astratti e presunti «diritti alla genitorialità», ma che siano in grado di valutare la presumibile buona riuscita di questi che sono, non appaia il termine irriverente, dei veri e propri «trapianti».

Tutto ciò deve indurre il legislatore a evitare la produzione di «leggi totem» che servono solo come trofei per questa o quella sezione dell’opinione pubblica, nella speranza poi di ricavarne un qualche profitto elettorale. Bisogna piuttosto impegnarsi tutti a produrre una normativa che risolva al meglio possibile il problema di risarcire bambini che hanno subito una violenza intollerabile dalla sorte dando loro l’opportunità di avere una vita familiare che sappia farsi carico del loro grande disagio. Per fare questo bisogna, con pazienza e umiltà, far progredire nel Paese una presa di coscienza matura del problema, che è ciò che può aiutare poi nella gestione di un percorso che non si risolve certo col momento dell’assegnazione di un minore a un nucleo familiare. Per questo va fatta una chiara operazione per sgomberare il campo da tutti quelli che sono solo in cerca di scalpi degli avversari da appendersi alla cintura.

È fondamentale che, in un momento delicato come quello che stiamo vivendo, riusciamo a neutralizzare le pulsioni a spaccare l’opinione pubblica trascinandola nell’ennesima diatriba populista. Solo i ciechi possono non vedere cosa ci sta davanti: un problema enorme di gestione delle migrazioni di massa, che si preparano anche ad assumere aspetti violenti, come è inevitabile di fronte alla messa in discussione di ciò che esse considerano, certo sbagliando, un «diritto» (ma che tutto è «diritto» sotto queste latitudini glielo abbiamo insegnato noi); un problema non previsto come è il precipitare della situazione in Libia con la possibilità che ormai molto più di un’ipotesi che l’Italia assuma la guida di un’operazione militare di contrasto al cosiddetto Stato islamico; un problema che riguarda la ridefinizione del nostro sistema economico, operazione che sicuramente non è una passeggiata e che porterà con sé molti «danni collaterali» che andrebbero ben valutati.

In queste condizioni spetta a coloro che ancora credono all’«opinione pubblica» - non come l’arena in cui si svolgono i talk show, ma nel suo storico significato come il complesso degli uomini e degli strumenti che elaborano criticamente il rapporto con il potere di governo – alzare la voce e riprendere il compito di «orientare»: non le soluzioni che si suppongono perfette, ma le modalità di convivenza che rendono possibile trovare quelle più efficaci e maggiormente condivise.