Nell'Italia degli anni Cinquanta, il prototipo della maternità riprovevole era la ragazza che aveva un bambino fuori del matrimonio; l'accusa, aver anteposto gli impulsi alle norme, i tempi della natura a quelli della cultura; la pratica illecita, l'aborto.

Oggi che l'espressione «figlio della colpa» sembra un reperto linguistico, le madri irregolari sono altre. Quelle che partoriscono in menopausa, danno o ricevono l'utero in prestito, ricorrono alla fecondazione artificiale per disinteresse o rifiuto di un rapporto con la persona materializzata del padre: madri abusive, che alla legge biologica preferiscono o sovrappongono le tecnologie procreative, alla «natura» la «cultura» sotto specie di scienza. E la pratica illecita non è quella che interrompe la gravidanza, ma quella che la rende possibile.

Anche i peccati non sono più quelli di una volta.

Il coro che si leva periodicamente contro queste madri è tanto virtuoso quanto impietoso. Possono variare i toni secondo l'appeal della protagonista del momento, ma nessuna si sottrae a una riprovazione che vede accomunati moralisti e scettici, scrittori e tuttologi, laici e religiosi, ministri e rappresentanti di istituzioni. Il primo reato è appunto di lesa natura. Limiti e caratteristiche degli interventi riproduttivi sembrano diventati il criterio principe per la misura di una «naturalità» che negli ultimi anni è stata oggetto di una manipolazione accelerata e spericolata come mai prima. Basta pensare alle tecniche per determinare sesso e tratti fisici del nascituro, alla messa in commercio di sperma e ovociti, o ai recenti esperimenti su cavie e topi per la modificazione delle cellule germinali, quelle destinate a trasmettere il dato genetico mutato non solo a un individuo, ma a tutta la sua discendenza.

Che della riproduzione assistita si giovino donne in età feconda o ai suoi confini, purché munite di marito o compagno stabile, non fa scandalo; anzi in questi casi si reagisce con la benevolenza distratta riservata a fenomeni ormai entrati nel costume. Si tratta, in fondo, di operazioni destinate a correggere un'anomalia, a far corrispondere la capacità personale alla norma biologica spesso a sanare un senso di vuoto nutrito del confronto con le più fottunate. Non essere da meno di altre donne sembra una richiesta legittima.

Ma per le cosiddette mamme/nonne, per le mamme omosessuali, il discorso cambia radicalmente. Vogliono di più, vogliono troppo. Alle une si imputa la pretesa di essere come le più giovani, peggio ancora come gli uomini, la cui età fertile in teoria non ha limiti. Alle altre di volere tout court fare a meno del maschio, magari in nome di una verginità riscoperta come valore.

Siamo al secondo reato, quello contro la disciplina del desiderio. Alla madre fuori tempo o fuori norma viene associata una passione che non arretra di fronte a raggiri, menzogne sull'età e sulla condizione anagrafica, ricatti emotivi, pericoli per la salute e la vita proprie e del nascituro. La storia mostra che gli «eccessi» femminili non sono una novità e che non sempre hanno fatto scandalo; ma erano compiuti per amore e interesse degli altri, o almeno interpretati in questi termini. Ora, chiuse in un cortocircuito di narcisismo, le donne guarderebbero solo a se stesse.

Il terzo reato è dunque l'egoismo. Di una casalinga, si pensa che voglia riempire un vuoto esistenziale; di una manager, che abbia passato spensierotamente gioventù e maturità a far carriera, e voglia recuperare un diritto scaduto. Di una omosessuale, che punti a garantirsi una compagnia per la vecchiaia. Molti parlano di esibizionismo, di speculazioni economiche; altri di delirio di onnipotenza. Qualcuno teme un mondo di donne che partoriscono donne, come in certi libri della fantascienza sociologica, o di vecchie che smettono di fare da madri ai maschi adulti a vantaggio dei nuovi nati.

Sullo sfondo forse preme, inavvertito, il sospetto di un'alleanza donne/medici, versione aggiornata del vecchio asse donne/preti che le sinistre hanno sempre temuto: il laboratorio come confessionale tecnologico, il medico come sacerdote-stregone che al riparo delle sue competenze manipola corpi e provette, la donna come succube e complice di un complotto teso a rendere l'uomo sempre più marginale nel concepimento e nell' allevamento.

La vittima assoluta di queste performance è il figlio. Con una buona dose di cattivo gusto, gli si prevedono a seconda dei casi un precoce destino di orfano o la condanna alla marginalità sociale; disturbi psichici, infelicità, riduzione a accessorio ornamentale e a giocattolo affettivo. Sull'allungamento della vita media, sui telefoni azzurri necessari a far fronte ai disastri annidati nella normalità, si tende in questi discorsi a sorvolare.

Ferdinando Camon, un autore che adora misurarsi con i grovigli di senso più temibili, non ha risparmiato neppure la ancora fertile signora Regina Bianchi, che si era offerta di sostituire nella gestazione la figlia isterectomizzata, e cui la stampa aveva per lo più riconosciuto l'attenuante dell'intenzione oblativa. Varrebbe la pena riportare per esteso il commento che lo scrittore dedica alla notizia che la signora ha abortito e subito dichiarato di voler ritentare: un condensato di accuse e profezie nefaste, che precipita nell'immaginedella «collanina di cadaverini» (sic) cui si ridurrà il dono della madre alla figlia1.

Si può immaginare un linguaggio simile rivolto a una «normale» reduce da aborto? Non tutti i commenti hanno questi toni. Alcuni libri di uscita imminente2 promettono analisi e racconti di esperienze; già oggi si incontrano su una parte della stampa quotidiana tesi possibiliste e riflessioni rispettose, spesso a firma femminile, ma non solo.

Chi legge acquisisce così alcune conoscenze di base. In primo luogo che la cosiddetta procreazione assistita è un affare economico di larga portata. Che in tutti i paesi è terreno di un conflitto politico e simbolico aspro, in cui sono coinvolte l'autodeterminazione in tema di aborto, le adozioni, le famiglie di fatto, le unioni omosessuali. Che in Italia il veto alla fecondazione eterologa nelle strutture pubbliche ha fatto proliferare i centri privati, dove si dirigono anche donne di Paesi proibizionisti in un pellegrinaggio su scala ridotta speculare a quello che negli anni Sessanta portava molte a abortire negli ospedali stranieri.

Chi vuole può rendersi conto che le leggi contro l'inseminazione fuori del matrimonio o dopo l'età feconda sono l'aspetto più vistoso di una strategia di controllo sul corpo femminile, e non è un caso se in un recente parere del Comitato nazionale di bioetica le donne sono nominate solo come oggetto da regolamentare3. Che il senso del limite invocato per questa materia viene sistematicamente tradito in altri ambiti di ricerca. Che le tecnologie obbligano a ridefinire i concetti di maternità e paternità, ma che fra etica di Stato e deregulation non esiste oggi molto spazio.

Eppure è in questa strettoia che bisogna lavorare, dopo aver visto le distorsioni del libero mercato e prima di una legge di cui non è chiaro chi sarebbe legittimato a decidere criteri, contenuti e sanzioni.

Per farlo, ci vorrebbe una discussione lenta, attentissima alle conseguenze di ogni ipotesi normativa: se per esempio ci si accanisce a pretendere dalle aspiranti madri certificati di altruismo e fermezza di carattere, non si finirà per dubitare che una persona psichicamente instabile abbia diritto di concepire? Se ci si appella con tanta urgenza a una soluzione normativa, non si delegittima a priori la riflessione sul rapporto fra tecnologie e libertà4?

Ma cautela e tempi lunghi sono difficili da praticare, visto che la cronaca continua a proporre a raffica la madre/nonna di turno, la ragazza omosessuale fecondata con il consenso della compagna, i cipigli e i sorrisi di medici regolarmente messi in posa e intervistati, l'ultima teoria dei moralisti e il primo vagito dei neonati impossibili. Quando più di un quotidiano ritiene opportuno collocare nella stessa pagina il caso di una mamma/nonna e quello di un padre intenzionato a disconoscere il figlio nato per fecondazione eterologa, anche chi teme la fretta e la concitazione può sentirsi costretto a prendere la parola5.

Mi pare che fra le madri riprovevoli le più riprovate siano quelle di mezza età. «È una violazione aberrante", ha dichiarato a proposito della vicenda di Regina Bianchi la allora uscente ministro della Sanità Maria Pia Garavaglia, mentre Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita, si chiedeva con sarcasmo se il bambino avrebbe chiamato mamma o nonna la donna che lo aveva messo al mondo6. Mentre il Comitato di bioetica caldeggia l'esclusione delle donne in menopausa dall'assistenza procreativa, una proposta di legge di area progressista presentata il 3 agosto scorso stabilisce, con il veto oltre i 51 anni, più o meno lo stesso limite. Paragonata alle differenze vistose su altri punti, questa quasi unanimità segnala un problema aggiuntivo a quello della manipolazione tecnologica.

Devianti sociali non meno delle mamme gay, le madri ritardatarie sono anche anomalie biologiche che simbolizzano lo scardinamento attuale delle cronologie personali. E strano che sia per lo più rimasta in ombra l'inquietudine con cui oggi si guarda al tempo e alle età, in particolare anche se non solo a quella delle donne.

Negli ultimi anni le modificazioni del ciclo biografico sono state tali che è diventato luogo comune il confronto fra i 39 anni della Sanseverina di Stendhal e quelli di oggi. Per non poche donne, sono l'età della prima gravidanza, del secondo matrimonio, di svolte professionali e esistenziali. Fra tecnologie estetiche, migliori condizioni di vita e nuovi modelli culturali, l'immaginario sociale associa a questa fascia di età un'idea di perdurante giovinezza.

Quanto alle cinquantenni e sessantenni, nell'incertezza se definirle anziane o peggio vecchie, è d'uso negli ambienti beneducati chiamarle «grandi», e correggere il «giovane» in «piccolo». Quando abbia inizio la mezza età e in cosa si identifichi, è un tema lasciato volentieri fra parentesi.

Nel frattempo circolano nei media figure da decenni invariabilmente luminose. Come essere belle a tempo indeterminato è la ragione sociale di molte cliniche e di infinite rubriche medico/ estetico/ psicologiche. Di recente a New York, con lo slogan «la moda non ha età», hanno sfilato una signora di settant'anni in stivali e cappotto militare e l'incantevole cinquantenne Benedetta Barzini. Cosa ne è del modello secondo il quale a ogni età corrisponderebbero specifici compiti, ruoli, sentimenti, abbigliamenti, cosa ne è dell'immagine cara a Simone de Beauvoir7 della vecchiaia come distacco graduale dalle asperità della vita, spontaneo affievolirsi delle passioni?

In teoria oggi niente sembra precluso alla mezza età, tutto viene anzi caldamente raccomandato, dai viaggi al ballo, dall'istruzione alla seduzione. Perché un figlio no?

Ridotta la menopausa da serio passaggio a variabile insignificante, non c'è da srupirsi se anziane vitali e ostinate rivendicano il diritto a generare cui solo un importuno sonno ormonale fa ostacolo, tanto più che alle condanne sociali non corrisponde affatto un vuoto di offerta. Fingendosi una cinquantaquattrenne single decisa a concepire un figlio fotocopia di se stessa, una giornalista si è rivolta a una quindicina di centri pubblici e privati di assistenza all'infertilità sparsi in tutta Italia. Con risultati che mostrano grandi oscillazioni nei criteri deontologici e grande elasticità nelle risposte - dal rifiuto rigido per limiti di età o per la mancanza di un compagno stabile alla garanzia del neonato su misura - ma documentano soprattutto che denaro, spirito di iniziativa e disponibilità a spostarsi sono sufficienti per veder soddisfatta la richiesta8.

Non è improbabile che qualcuna ricorra in seguito al bisturi, per evitare al figlio il contrasto fra un'immagine materna segnata dagli anni e i visi freschi delle mamme ortodosse. E neppure che altre, sgomente di un ruolo che può sfinire anche una donna più giovane, lo risuddividano affidandosi a una tata.

Quanto ci sia di autonomo nelle maternità eretiche è dunque davvero difficile dire in astratto, senza potersi ancorare a storie e situazioni individuali. Certo fra la donna che desidera e il bambino desiderato non c'è il rapporto biunivoco rappresentabile con la linea retta; la figura assomiglia piuttosto a un triangolo, alla cui sommità troneggia il modello sociale - il terzo che fa da mediatore, per usare le parole di René Girard - autorizzato a indicare l'oggetto desiderabile, e capace di agire con tanta più forza quanto minore è la sua distanza dal soggetto.

Ma lo stesso vale per qualsiasi desiderio, considerato che nella modernità, dove le differenze fra individui sembrano scomparire, a dominare è il mediatore interno, parte del nostro mondo, che si propone e si impone per il tramite dei tanti scenari comunicativi. Minimizzare il ruolo strutturale dell'imitazione e scandalizzarsi del suo peso in queste scelte di maternità è un'operazione vanitoso/romantica, tipica di chi è convinto «che il proprio desiderio rientra nella narura delle cose o, il che è lo stesso, è l'emanazione di una soggettività serena, la creazione ex nihilo di un lo quasi divino»9.

Nel disordine biografico di oggi, l'età matura/anziana è rimasta finora stretta fra una gioventù prolungatissima e una vecchiaia posticipata fuori misura. In mezzo, una no woman's land tanto nuova quanto poco studiata10, e si direbbe socialmente sospetta. Sotto i generici inviti dei media a mantenersi e ritenersi giovani, in realtà convivono e confliggono messaggi diversi e contrastanti: mai rinunciare ai piaceri della vita, mai credere di averne diritto; mai mettersi ai margini della scena sociale, mai pretendere il centro; non disarmare, non competere; afferrare l'attimo fuggente, accettare che sia ormai svanito.

Affiorano valutazioni capricciose sui corpi e sulle intenzioni: la donna che lascia ingrigire i capelli può essere giudicata indifferentemente una vetta di autonomia, un'arrogante, una sciattona; quella che li colora, una aspirante ragazzina, un esempio di accuratezza, una schiava delle apparenze. Della cinquantenne sciupata si pensa con disapprovazione che si lascia andare senza combattere. Alla bella cinquantenne si guarda con sospetto: quali strategie ci sono dietro quelle rughe in meno? L'idea che le donne abbiano con il proprio invecchiamento un rapporto da scontro militare resta un luogo comune difficile da scalfire. Esplodono ostilità scomposte: ha ragione Natalia Aspesi, accusata dall'assessore alla Cultura di Milano Philippe Daverio di aver partorito in tutta la sua vita solo due gatti, a denunciare il fascismo di chi attacca una donna sul piano dell'età e della maternità mancata11. È un fascismo in cui, al di qua delle politiche e delle ideologie, persone molto diverse fra loro possono cadere con giuliva inconsapevolezza.

Il punto, mi sembra, è che molti continuano a pensare che una donna, tanto più se di mezza età, debba stare al suo posto; ma non è più chiaro quale sia esattamente. A volte basta poco per essere una cattiva signora, spesso ci vuole molto per raggiungere una misura accettata. Perché oggi questa misura si caratterizza per non avere contenuti precisi, per essere alla mercé di umori e spinte estemporanee.

Non sarebbe stata al suo posto Regina Bianchi: una donna in età non deve illudersi di poter offrire la vita rischiando di dare il suo contrario, non può azzardarsi a sfidare la natura anziché porgere l'esempio della rassegnazione. Con l'aggravante di aver dimenticato che è al marito che una donna deve offrire il dono di un bambino, non alla propria figlia: imperdonabile sovversione, che sembra tradurre in pratica una delle teorie più fastidiose del femminismo, quella per cui è il rapporto fra donne a fondare la libertà femminile.

Non sarebbe stata al suo posto neppure Ornella Vanoni, che ha raccontato sul supplemento del «Corriere della Sera» il suo rapporto con i primi segni dell'invecchiare, la sua percezione del cambiamento nello sguardo degli altri sul suo corpo. Titolo: Amare a 60 anni; tono equilibrato, un accenno ai probabili minori problemi delle donne di casa, definite infelicemente «più modeste d'animo e di aspirazioni».

Nel numero successivo le rispondono irate coetanee, che la invitano a fare i conti della sua vita e a vedere quello che le rimane «qualche ricordo di amplessi, letti, e maschi e quel suo figlio...»), rivendicano la propria superiore indifferenza a rughe e crolli, dicono di sentirsi, interiormente, bellissime, ricchissime e importantissime. E non mancano di dichiararsi in possesso di mariti amorevoli e figlie meravigliose. Una delle quali, per altro incerta se seguire l'esempio materno, scrive di persona polemizzando aspramente, e aggiunge un candido post scriptum: «quando la mamma ha letto l'articolo, ha sorriso con indulgenza e ha portato, felice, il caffè a letto a tutti noi»12.

Incauta Vanoni, ridotta a versione senile della bella senz'anima.

Mi sembra che la trasformazione dei tempi biografici, l'intercambiabilità di ruoli familiari e sociali siano meno generalizzate di quanto a volte si pensa; che su tutto questo ci sia ancora poca elaborazione diretta. A interpretare e rappresentare la vita provvedono forse più i media che l'esperienza.

In nome di cosa, argomenta seccamente Silvia Giacomoni13, si chiede alle donne di essere più sagge della società? Credo di un vittorianesimo di ritorno, che cerca nel femminile la sua nicchia ecologica e il solito contraltare alla competizione – come non ci fossimo tutti immersi, donne e uomini, e la maternità non ne fosse un terreno, ampiamente frequentato anche da medici, cercatori di scoop e piazzisti di ingredienti procreativi.

Forse sono nel vero le tante madri riprovevoli che insistono sulla assoluta normalità delle proprie scelte. Dopotutto vogliono semplicemente realizzare un sogno in un'epoca in cui il sogno è sempre più popolare, e sempre meno distinto dal bisogno, dal desiderio e dal diritto; vogliono fare e essere famiglia, godere di una domesticità non dissimile da quella della maggioranza. Solo che una minoranza decisa a rivendicare pubblicamente visibilità e parità può mettere in scacco grave le gerarchie che oppongono famiglie ideali e famiglie «imperfette», madri «naturali» e madri «tecnologiche», maternità totale e maternità suddivisa fra concepimento, gestazione, allevamento.

Al disordine del tempo biografico si può guardare come a uno slittamento ingannevole delle vecchie scansioni o come a uno spazio per nuovi modi di sperimentare le età. In ogni caso, fra madri/nonne, censori e norme in conflitto, sarà difficile invecchiare in pace.

 

Note

1 F. Camon, Cara mamma-nonna, non riprovarci, «La Stampa», 7.5.1994.

2 Si vedano gli annunciati C. Flamigni, I laboratori della felicità, Milano, Bompiani e M.

Bonaccorso, Mamme e papà omosessuali, Roma, Editori Riuniti.

3 S. Rodotà, La donna dimenticata, «la Repubblica», 29.6.1994.

4 Si vedano le riflessioni di Gianfranco Bangone, Guerra santa sulla maternità e di Grazia

Zuffa, Una bussola oltre la norma, «il manifesto», rispettivamente 7 gennaio e 6 marzo 1994.

5 L. Campagnano, Troppi desideri attorno a un piccolo corpo, «il manifesto», 25.6.1994.

6 M. De Bac, Sarò una nonna-mamma felice, «Corriere della Sera», 14.4.1994.

7 S. de Beauvoir, A conti fatti, Torino, Einaudi, 1980.

8 A. Garzia, Lo voglio così, «Epoca», 18.9.1994.

9 R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompiani, 1981, p. 18.

10 S. Piccone Stella, Un decennio senza cittadinanza, «Memoria», n. 16, 1986.

11 Cfr. «il manifesto», 24.6.1994.

12 Cfr. «Sette», nn. 6 e 7, 1994.

13 Cfr. S. Giacomoni, Storia di Sara, figlia di una lesbica, «la Repubblica», 24.6.1994.

 

 

[Questo articolo di Anna Bravo è stato pubblicato sul "Mulino" n. 5/1994, pp. 913-919]