Enzo Jannacci è stato uno degli artisti maggiori della canzone italiana e, per certi aspetti, mondiale. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, in Italia le capitali del triangolo industriale sono anche il luogo di origine di una nuova canzone, sociale e poetica, con radici popolari, legami con il cabaret e il teatro d’avanguardia, diramazioni nei generi più moderni, dal jazz al rock-n’roll (e prima ancora allo skiffle), allo swing. Questa forma d’arte si è già affermata in Francia con gli chansonniers e sta muovendo i primi passi in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove poi esploderà con i Beatles e con Bob Dylan, fra gli altri. Sarà un mondo nuovo, destinato a cambiare per sempre non solo la canzone e la musica, ma la cultura popolare e il costume, influenzando profondamente anche quella rivoluzione sessuale e sentimentale (l’avvento della libertà di amare e l’emancipazione delle donne e delle persone Lgbt) che, iniziata proprio fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, si prefigura come uno dei rivolgimenti più importanti della storia umana.

In Italia, come già accennato, sono le tre città allora più industrializzate, non a caso, a fare da incubatrice. Prima la Torino di Fausto Amodei e dei Cantacronache, ma anche di Fred Buscaglione. Poi la Genova di Tenco, Paoli, De André, Lauzi. Quindi Milano: con Ivan Della Mea, Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci (ma anche I Gufi, per certi versi Dario Fo). Solo negli anni Settanta la nuova canzone fiorirà negli altri suoi tre poli principali, su questa penisola: Roma, Bologna e naturalmente Napoli. Soprattutto quella di Napoli è un’altra storia, sia per radici sia per ampiezza (si pensi a Renato Carosone, e prima a ‘O sole mio, o all’influenza che su Brassens ebbero le vecchie canzoni napoletane che cantava sua madre, o all’importanza che quel genere ebbe per Domenico Modugno).

Torniamo al Nord. E fissiamo un primo punto fermo. Fra i milanesi, negli anni Sessanta Enzo Jannacci è senza dubbio l’artista più dirompente, profondo, geniale. Probabilmente, all’epoca Jannacci è l’artista più innovativo in assoluto della canzone italiana, anche rispetto alla scuola di Genova. Sì, anche rispetto a Paoli, Tenco e De André che, nei primi anni, non fanno che riproporre, per quanto a volte in modo splendido, lo stile dei francesi, di Brel o Brassens. Innovativo e (ripetiamolo) profondo. Per quali motivi? Intanto c’è la vena satirica. In Italia Jannacci ne è il caposcuola, con uno stile molto cabarettistico ma con venature jazz e rock’n’roll, e raggiunge uno straordinario successo di pubblico: i vertici sono Vengo anch’io, no tu no (1967), forse il suo brano più celebre, e Ho visto un re (1968), con testo di Dario Fo. Ma prima c’erano già state, fra le altre, Una fetta di limone (1960, di e con Giorgio Gaber), L’ombrello di suo fratello (1961), Il cane con i capelli (1961), Andava a Rogoredo (1964), Aveva un taxi nero (1964), L’Armando (1965), Faceva il palo (1966) e altre perle ugualmente geniali ma meno note: provate ad ascoltare Sopra i vetri (1965). Anche se allarghiamo lo sguardo ai confronti internazionali, Jannacci stupisce.

Fra i milanesi, negli anni Sessanta Enzo Jannacci è senza dubbio l’artista più dirompente, profondo, geniale

Oltralpe non mancano naturalmente brani satirici, corredati di interpretazioni cabarettistiche altrettanto brillanti: sono così alcuni capolavori di Jacques Brel (Les bourgeois, 1964) o di Léo Ferré (Graine d’ananar, 1955, Thank you, Satan!, 1961), sono satiriche molte canzoni di Brassens, anche quelle di argomento più leggero (Marinette, 1956), e sulla scia di Brassens erano satiriche, in Italia, già alcune composizioni di Fausto Amodei (Una carriera, 1960), che ispireranno peraltro il primo Guccini (Il sociale e l’antisociale). Negli Stati Uniti, anche il primo Bob Dylan trova di tanto in tanto una vena satirica (I shall be free, 1962, e I shall be free no. 10, 1964, Bob Dylan’s 115 th dream, 1965), spesso accompagnandola con movenze charlottiane.

Rispetto alla satira, o alla mera ironia, Jannacci però ha qualcosa di particolare, unico, per quei tempi, perfino a livello mondiale. Su una tavolozza dai colori surreali, i suoi testi combinano la satira con il nonsense, considerazioni agrodolci e giochi di parole dadaisti (non sempre facili: il cane con i capelli entra in tabaccheria e chiede «tre si-ga-rette», ma «non si-da-retta» a un cane con i capelli). Jannacci anticipa il rock demenziale degli Skiantos o di Elio. E per quanto possa sconfinare nel demenziale, la satira rimane, e resta anche la profondità dello sguardo (che cos’è questo cane con i capelli, cui il tabaccaio non vuole dare le sigarette, se non il diverso per antonomasia, l’emarginato? E siamo nel 1961). A volte anzi la satira è talmente forte ed esplicita che, nell’Italia del tempo (ma forse anche di oggi?), viene censurata: «Si potrebbe andare tutti in Belgio nelle miniere / Vengo anch’io? No, tu no / a provare che succede se scoppia il grisù / venir fuori bei cadaveri con gli ascensori / fatti su nella bandiera del tricolor». Sono strofe che fu costretto a eliminare. Come anche: «Si potrebbe andare tutti insieme nei mercenari / vengo anch’io? No, tu no / giù nel Congo da Mobutu a farci arruolare / poi sparare contro i negri col mitragliatore / ogni testa danno un soldo per la civiltà». Per il suo contenuto politico, pur in una veste leggera, anche Ho visto un re verrà censurata, dalla Rai che nel 1968 impedì a Jannacci di presentarla alla finale di Canzonissima.

Jannacci riesce a mescolare, nella stessa canzone, e con esiti artistici molto alti, la protesta e il nonsense, il sorriso e il dramma. Se non l’unico, egli è stato in questo il primo e il migliore, in Italia e forse nell’intero mondo della canzone occidentale. Dalle nostre parti, affinità si possono trovare in alcune composizioni di Ivan Della Mea, anch’esse in dialetto milanese (si pensi a El me gatt, 1962, in Ballate della violenza), oppure nelle ballate di Fred Buscaglione degli anni Cinquanta. Non stupisce, naturalmente: di rado le forme artistiche sorgono dal nulla, ma fioriscono all’interno di un contesto. Ma se Della Mea difetta di ironia, a Buscaglione manca la critica sociale. In Jannacci invece la mescolanza è netta (mi si passi l’ossimoro). Guardiamo a El portava i scarp del tennis (1964), dove un ritmo allegrotto, il tono ilare e un ritornello accattivante («rincorreva già da tempo un bel sogno d’amore») si intrecciano con la denuncia delle disuguaglianze: «poteva farmi salire anche davanti sulla macchina, non sporcavo mica; […] anche mio cugino aveva la macchina, ferma però, ci dormiva dentro». O prendiamo Giovanni telegrafista (1967), dove invece è un dramma sentimentale a fare capolino sotto l’ironia (e non sfugga l’innovazione compositiva: il ritornello è costituito dalla voce che fa il suono del telegrafo).

Altre volte, Jannacci è puramente e solo drammatico. Forse questo è il suo aspetto meno noto, ma qui pure tocca diverse volte le vette della canzone italiana. Sfiorisci bel fiore (1963) è il suo primo capolavoro di questo tipo. Tanto bella che sembra una canzone popolare, di autore anonimo: «uno dei più grandi complimenti», nota lui. Esiste una versione live del 1965 con una strofa in più: «E un dì un bel soldato partiva lontano / fu solo per gioco che lui ti baciò / Piangesti stringendo la fredda sua mano / lui rise con gli altri e il treno via andò». E questo brano non è che l’inizio. Ecco Il Duomo di Milano (1971), «pieno di acqua piovana», e a te «han cambiato il cervello» in via Lomellina: «Sparge il bancone di dolci lacrime d’addio / quel giovanotto malato di ricchezza / ed il garzone le asciuga ad una ad una / e a casa la sera se ne innamora». Nessuno era riuscito mai a evocare Milano in maniera così struggente, malinconica e surreale, come Jannacci in questo brano. Oppure Vincenzina e la fabbrica (1975), canto del cigno, letteralmente, della parabola fordista. O ancora L’uomo a metà (2003), che apre e intitola l’ultimo album di inediti: «Adesso è sera e l’uomo è da solo / balla su un disco di musica a nolo / verrebbe da ridere con gli anni che ha…». E Jannacci interprete? Ascoltate la sua versione di Io che amo solo te di Sergio Endrigo. Alcune delle canzoni drammatiche di Jannacci hanno un’intensità tale – musicale, lirica, interpretativa – da riuscire a commuovere. Forse in questo è stato l’artista italiano che più si avvicina ai giganti della canzone francese, ed europea, come Jacques Brel e Léo Ferré.

Jannacci è stato il controcanto della Milano ottimista e consumista, cercando di illuminare in quella frenesia ciò che resta dell’animo umano

Jannacci ha scritto canzoni che fanno divertire e che fanno piangere, a volte contemporaneamente. All’apice del successo ha deciso di lasciare tutto per laurearsi in medicina, di lasciare perfino l’Italia per specializzarsi nei migliori centri al mondo di cardiochirurgia. «Avrei voluto essere un dottore», canta a un certo punto Dylan (Don’t fall apart on me tonight, 1983) «forse avrei salvato qualche vita perduta / forse avrei fatto un po’ di buono del mondo / invece di bruciare ogni ponte che ho passato». Jannacci deve aver pensato qualcosa di simile. E l’ha fatto. Poi è tornato. Ha continuato a lavorare come medico e a regalarci canzoni nuove, fra cui gemme impressionanti rimaste ignote ai più (Si vede, 1980) e strepitose esibizioni dal vivo ugualmente poco note (c’è una versione del 1986 del Cane con i capelli in cui finge di suonare un triangolo inesistente).

Lungo i decenni, Jannacci ha mantenuto una linea poetica coerente, che ne ha fatto il massimo cantore critico, in Italia, del miracolo economico (si può forse accostare al Luciano Bianciardi de La vita agra, 1962: non a caso due anni dopo comparirà nell’omonimo film). Jannacci è stato il controcanto della Milano ottimista e consumista, cercando di illuminare in quella frenesia ciò che resta dell’animo umano, come nella bellissima E io ho visto un uomo cantata da Milva. Ha cantato i barboni, gli esclusi, i tossicodipendenti, le prostitute, i matti o, semplicemente, una persona qualsiasi, che scoppia a piangere senza un motivo, nell’abisso che si apre tra le vette della produzione e i fondali della nostra psiche. Passato il miracolo, impantanatasi anche la «locomotiva Italia», negli ultimi anni questa vena poetica è sfociata in una più ampia critica alla globalizzazione individualista, che dovrebbe assicurare prosperità e diritti e porta invece al conformismo, alla solitudine, alla guerra: Come gli aeroplani (2001), e anche in questo Jannacci forse aveva visto giusto, prima degli altri.

Adesso è chiaro. Enzo Jannacci è stato non solo uno degli artisti maggiori della canzone italiana e, per certi aspetti, mondiale. Ma è stato anche, fra i maggiori, il più sottovalutato. Probabilmente perché preso poco sul serio, per la sua vena satirica e nonsense, da un Paese e da una cultura poco pronti alla sua carica innovativa, sul piano artistico, e troppo presi dal sogno dell’agognato benessere per coglierne la critica. A dieci anni dalla morte, e guardandoci indietro, forse è venuto il momento di riconoscerlo.

 

[Questo articolo, che presentiamo in anteprima, sarà pubblicato ne "Il Cantautore", la rivista che ogni anno esce in occasione della Rassegna della canzone d'autore organizzata dal Club Tenco a Sanremo. La rassegna quest'anno si terrà dal 19 al 21 ottobre.]