Per quali ragioni soffermarsi sullo strascico di polemiche intorno al podio di Sanremo che hanno di recente affollato la scena mediatica? In fondo - direbbero alcuni - polemiche intorno alla kermesse musicale più nazionalpopolare del bel paese ce ne sono sempre state. Inoltre, la tentazione di liquidare un dibattito francamente poco stimolante è dietro l’angolo.
Dubbi e interrogativi non banali però affollano il web. Se raffrontiamo, per esempio, il putiferio social sollevato dal caso Alessandro Mahmoud, in arte Mahmood, con il clima serafico che ha accompagnato la vittoria di Ermal Meta nella scorsa edizione sanremese vale forse la pena di non snobbare del tutto la questione. Soprattutto se a polarizzare le opinioni comuni intervengono visioni pericolosamente riduttive che - proiettando sul podio un segno dell’islamizzazione dell'Italia o un inno alla multiculturalità post-identitaria – si presentano come contrapposte sulla scena pubblica ma attingono in modo implicito allo stesso contenitore discorsivo. Si tratta di due tipi di narrazioni che traggono la loro forza dalla capacità di inglobare la pluralità entro facili categorie, anche quando si fanno promotrici di posizioni anti-razziste o retoriche astratte che vedono la differenza come “risorsa”. Addentrandoci nel dettaglio dei due tipi di narrazione così polarizzati, proveremo a mettere in luce i pericoli del riduzionismo che esse inevitabilmente rafforzano.
In seguito al trionfo di Mahmood, a occupare la scena pubblica è stata una pioggia di commenti razzisti e insulti improntati alla xenofobia. Come ricorda un’ampia letteratura, esistono profonde connessioni tra i discorsi sulla differenza e quelle idee di cultura e nazione che hanno storicamente forgiato l’immaginario italiano e europeo, portando a percepire la cultura come ‘realtà politica’ e la migrazione come minaccia all’integrità della nazione. Alcuni fattori però, quali la crisi economica, le emergenze umanitarie e la crescente politicizzazione delle appartenenze, hanno permeato di recente il discorso comune sulla migrazione, legittimando sempre più l'ostilità nei confronti della diversità culturale. In particolare, alcune strategie discorsive basate sull'accostamento di fenomeni sociali tra loro in realtà ben distinti promuovono fuorvianti associazioni di idee che, replicandosi e sedimentandosi, divengono oggetti incontestabili e inviolabili. Fagocitato dal richiamo costante a parole quali Islam, porti, sbarchi, il “caso Mahmood” è stato avvolto in potenti narrazioni che stabiliscono connessioni meccaniche fra le biografie dei figli di migranti e i permessi umanitari concessi a soggetti inaffidabili e manipolatori. Nell’Italia del Decreto Sicurezza ha preso prontamente corpo la tesi dei ‘legittimi sospetti’ sui tentativi della “sinistra dell'accoglienza” di appropriarsi del ragazzo che “Allah ci ha regalato” (11 febbraio, Libero Quotidiano.it), comprovata dalla composizione di una giuria definita “etnicamente mista e ideologicamente compatta” (e per questo si citano, fra gli altri, il giornalista Severgnini, il regista turco Ozpetek, lo chef Bastianich, la conduttrice Raznovich). Per quanto esibite in modo coerente, tali narrazioni operano spesso attraverso ambiguità e contraddizioni interne. La tendenza a politicizzare questioni non connesse al fenomeno migratorio si alterna, per esempio, alla condanna di ogni discussione centrata su immigrazione e accoglienza, percepita come strategia per aggirare i problemi degli autoctoni (da qui la ripresa del termine “Benaltrismo”). Di fronte al putiferio social intorno al Festival, alcuni hanno lamentato come ancora una volta “un arabo”’ avesse distolto l’attenzione mediatica dalle questioni importanti del Paese.
Con lo stesso occhio critico vanno osservate le strategie che, attraverso l’evocazione di culture astratte, agiscono per organizzare un contro-discorso al razzismo salviniano. Sulla stampa e sui social si è ben presto imposta una retorica che ha celebrato il podio di Mahmood come trionfo dell’Italia multietnica e vittoria simbolica dello ius soli, erigendo il giovane a rappresentante autentico delle ‘nuove’ generazioni di italiani. Sono bastati il Ramadan, il narghilè, e pochi versi pronunciati in un ostentato arabo (Waladi waladi habibi ta’aleena) da un giovane che parla fluentemente il sardo oroseino per rimandare ancora una volta i figli di migranti alle proprie origini.
Attingendo a un mix di essenzialismi e tropoi orientalisti, si è articolato un discorso sulla differenza che tende ancora a colpire coloro che appartengono a gruppi etnicamente e razzialmente soggetti a pregiudizio. Non stupisce dunque che, in un contesto dove risulta difficile pensare a un ‘italiano nero’ e a un ‘musulmano bianco’, alcuni stereotipi legati all’Islam e all’alterità siano più prontamente proiettati su un giovane dai tratti somatici visibili che “fa Marocco pop” che non su un coetaneo di origine albanese dalla pelle bianca e dai versi poco esotici.
Il punto è che, paradossalmente, la retorica dello ius soli finisce così per alimentare quelle percezioni rigide dell’identità che sono in parte responsabili delle discriminazioni sperimentate dai figli di migranti, anche quando la cittadinanza giuridico-formale è ottenuta. Dietro questa retorica si evidenziano di nuovo ambivalenze che se, da un lato, celebrano la natura multietnica della società italiana, dall’altro, percepiscono la migrazione attraverso visioni emergenziali che la qualificano come un fenomeno recente e temporaneo piuttosto che strutturale e in evoluzione. A chi gli attribuisce la responsabilità di rappresentare una ‘nuova’ generazione di italiani, Mahmood non a caso ribatte: “Per me non è una nuova generazione. Già alle elementari nella mia classe c'erano africani, russi, sudamericani. Per me non è la nuova Italia, ma è già la vecchia” (11 febbraio, ansa.it).
Le polemiche sul podio di Sanremo non si sono ancora placate. Ma possiamo prevedere che presto un altro caso incendierà la scena pubblica polarizzando il dibattito attraverso simili copioni discorsivi, che certo non aiutano a restituire la vasta gamma di posizioni in cui gli individui possono riconoscersi. Cambiano gli interpreti insomma, ma la musica non cambia.
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