Settembre, tempo di vendemmia. Tempo in cui nelle colline di Francia, Spagna, Portogallo, Italia e Canton Ticino si sente il suono rapido e costante delle forbici che tagliano l’uva, un grappolo dopo l’altro, un filare dopo l’altro. Quest’anno ho partecipato a due vendemmie: una in Piemonte e l’altra nei pressi di Lugano.

La vigna italiana produce vino biodinamico ed è calda, assolata e polverosa. Lì incontro un mondo variegato: persone diverse per età, estrazione sociale e culturale, forza fisica, ruolo e potere. In testa ci sono il cantiniere e il suo aiutante, entrambi albanesi. Sotto di loro c’è un pugliese a controllare i filari: si è trasferito qui 30 anni fa per fare il ferroviere. Questo per lui è un lavoro extra, perché è in pensione. Poi ci sono gli operai agricoli, salariati fissi dell’azienda. E infine ci siamo noi: quelli che lavorano a chiamata. A tagliare l’uva ci sono i ragazzi del villaggio, che alternano il lavoro con la scuola, facendo i turni a seconda dell’orario delle lezioni. Alcuni hanno radici che affondano in questa terra, mentre le facce di altri raccontano provenienze lontane: Ecuador, Ucraina, italiani di seconda generazione. Ci sono una mamma con la figlia, qualche giovanotto, una coppia di mezz’età, altri due albanesi e una ragazzina.

Iniziamo alle 7 o alle 8, dipende dal tempo e dalla rugiada, che andando avanti con i giorni sta sui grappoli sempre più a lungo. Perché se l’uva è bagnata non si taglia. Dopo due ore, abbiamo dieci minuti di pausa, altre due ore e ci si ferma per il pranzo. Il pomeriggio è come la mattina: quattro ore con dieci minuti di intervallo. Totale: otto ore. Si lavora chini e accucciati, con la schiena che dopo un po’ inizia a dolere. Le forbici tagliano veloci, i guanti diventano appiccicosi di zucchero e attirano le vespe. Si sta uno da una parte e uno dall’altra, così quello che non vede l’uno lo vede l’altro e non si lasciano grappoli sulle piante. Ognuno ha un cavagno: quando è pieno lo svuotiamo in una cassetta più grande e ci spostiamo. Poi, sbuffando fumo puzzolente, arriva il trattore: dal cassone dietro salta fuori una ragazza forzuta, che tira su le cassette, le impila e le porta in cantina.

La vigna svizzera sale per il costone di un monte: dalla cima si vede tutto il lago di Lugano, una vera bellezza. Con quest’uva violetta si fa un merlot che qualche anno fa ha vinto dei premi; non è biodinamica ma non fa venire (tanto) mal di schiena: le viti sono alte, non occorre accucciarsi o fare contorsioni, basta inclinarsi un poco, allungare le mani et voilà, è fatta. L’enologa è ticinese; gli altri, tutti tranne una, sono italiani. Siamo italiani noi tagliatori e quelli che lavorano qui tutto l’anno: il custode è salernitano e il giardiniere lombardo.

“Dove si vive meglio?”, chiedo al custode. “A Salerno o a Lugano?”. “A Lugano, senza dubbio. Qui il lavoro viene rispettato, lo dico sempre alle mie nipoti, smettete di vivere da parassiti, venite qui”. Noi stagionali veniamo chi da Luino, chi da Clivio e chi da altre cittadine vicino alla frontiera; c’è una che abita a Varese, ma fa l’università qui, così spera di trovare lavoro in Svizzera. Facciamo tutti avanti e indietro ogni giorno. Qualche volta viene anche la contabile della ditta: il papà è calabrese, la mamma friulana, si sono incontrati a Zurigo, dove sono emigrati tanti italiani nel dopoguerra. È lei la non italiana. Anche se non italiana neanche troppo, a ben vedere. Il Ticino è così: una regione in cui si mescolano i dialetti della penisola, ma che allo stesso tempo storce il naso per la nostra presenza, soprattutto per i frontalieri quotidiani, tanto che al recente referendum contro la libera circolazione delle persone ha votato in maggioranza “sì”[1].

Il secondo giorno in Piemonte, il cantiniere dice che è in arrivo il contratto. La qualifica è “operaio agricolo”, la paga di 7 euro all’ora. Il contratto non è mai arrivato. In Canton Ticino ci fanno un permesso di lavoro temporaneo. Non ho visto neanche quello, ma l’enologa assicura che siamo registrati, basta dire il nostro nome e quello dell’azienda e le guardie doganali ci faranno passare. La paga è di 16 franchi all’ora, in euro fanno 14,60.

Il terzo giorno, in Piemonte, il ferroviere fa un discorso. “Dovete aumentare il ritmo, siete lenti, ieri è andata male, avete riempito solo 500 cassette: bisogna arrivare a 800, altrimenti al vostro posto chiamiamo una cooperativa”. Poi se ne va e lascia a una delle manovali il compito di controllarci. “Veloci, forza, più veloci”, grida lei, “non lasciate grappoli sugli alberi, non strappate l’uva, niente uva per terra, veloci!”.

Lei e il ferroviere lavorano qui tutto l’anno, sono come il custode e il giardiniere della Svizzera. Ma a differenza di quelli lassù, che badano ai fatti loro, questi sono annodati in un misto di attaccamento alla terra, di deferenza e timore per i padroni e di un certo gusto per il piccolo, temporaneo potere che possono esercitare su di noi. Nessuno, comunque, viene lasciato a casa.

La storia della cooperativa è una trappola, costerebbe più delle nostre mani, lo sappiamo. Eppure funziona: tagliamo rapidi, gettiamo l’uva nella cavagna a tre grappoli per volta, ci viene una sorta di furore, di competizione con chissà cosa, in realtà con niente, ci sporchiamo ma non importa, non ci si ferma, bisogna stare al passo. Dopo mangiato, però, la stanchezza si mescola alla calura e rallentiamo. Ma siccome quelli controllano, ci seguono e battono sulla spalla se non si è abbastanza veloci, smettiamo di far bene il lavoro: facciamo cadere acini a pioggia, tiriamo i grappoli con le mani, se si spezzano tanto peggio, li lanciamo verso il cavagno senza attenzione, se cadono fuori dalle cassette tanto peggio, purché non si veda. Questo vino sarà pure certificato, ma di certo noi non ci trattano biodinamicamente.

In Piemonte quest’anno mi hanno chiamata cinque aziende. Di vendemmiatori c’è bisogno perché i tagliatori abituali, macedoni e rumeni, non sono potuti venire: sarebbero stati obbligati alla quarantena. È grazie a loro, grazie a un’assenza legata alla crisi sanitaria, che sono qui. Ma che grazie è, quello che affonda in una situazione del genere? E loro, quelli rimasti dall’altro lato dell’Adriatico, cosa fanno, come guadagnano?

Oggi ho preso il posto degli immigrati. Ne ho preso il salario, 7 euro all’ora duri da farsi bastare e che non avrei accettato in tempi di non emergenza. Ne ho preso la schiena curva e una sete che non finisce più. “Si può fare una pausa per bere?”, chiede uno a metà pomeriggio. Ci sono 36 gradi e la sua è la voce di tutti. Dal filare non arrivano risposte.

Nel Canton Ticino si lavora tranquilli e si taglia con attenzione: se ci sono acini ammuffiti o succhiati dai moscerini vanno tolti a uno a uno, senza strapazzare l’uva. Non c’è fretta. I filari sono preceduti da rose e i grappoli sono tondi e sodi. Una bella scenografia, tanto che una mattina si presentano due della televisione per fare un reportage. “Perché fai questo lavoro?”, ci domandano. Presi alla sprovvista, con le forbici che tagliano e le dita che scartano gli acini che non vanno bene, ripetiamo tutti che è bello lavorare in gruppo e all’aperto. E questo è vero, certo: nessuno, però, tira fuori le frasi che penso di non essere la sola ad avere in testa. Pagano il doppio che da noi. Da noi non ho trovato nulla.

A ogni modo, loro non ci chiedono dove sia, “da noi”: non ci domandano da dove veniamo. Forse non vogliono saperlo: potrebbe venire fuori che siamo frontalieri e che prendiamo assai meno di uno svizzero.

In Piemonte ho preso il posto e il salario degli immigrati. In Svizzera sono un’immigrata. 16 franchi all’ora: “Nessuno svizzero vuole una paga così bassa”, mi sento dire. Ecco perché siamo solo italiani. Ecco, anche, il perché di tanti comportamenti ambivalenti: da un lato facciamo comodo, noi pagati di meno; dall’altro ci guardano storto, perché abbassiamo il prezzo della manodopera. Come macedoni e rumeni in Piemonte. Stessa storia, sempre. “Se hai il passaporto italiano, prendi il 30% in meno di uno svizzero”. E questo qualche noia deve pur darla: tanto quanto a me pesa la paga piemontese. Di qua e di là c’è in ballo sempre un 30%. 30% in meno in Svizzera, 30% che dovrebbero darmi in più in Piemonte, per arrivare a una cifra ragionevole. È il 30% delle genti in cammino: di quelli che si mettono in moto dalla Macedonia e dalla Lombardia. Di quelli che partono da Salerno, dalla Puglia, da Tirana e dalla Romania. Perché in ogni Nord c’è un po’ di Sud. E di Est.

 

 

[1] Il 27 settembre 2020 c’è stato il referendum «Per un’immigrazione moderata (Iniziativa per la limitazione)». L’iniziativa era volta a porre fine alla libera circolazione delle persone tra la Svizzera e l’Ue. Ha vinto il “no” con il 63%; in Canton Ticino, tuttavia, il 53,1% dei votanti si è espresso per il “sì”. Si stima che il totale dei frontalieri italiani in Ticino sia di circa 66.000 persone: il 30% degli occupati sul suolo cantonale.