È vero, la Fondazione Carnevale di Putignano, in programma a gennaio e febbraio, ha deliberato di dedicare i carri allegorici a “Fellini e i suoi film”, con tanto di bando pubblico per i bozzetti e un contributo straordinario regionale pugliese di 35.731,25 euro. E il festival “Bif&st” dispenserà in marzo, fra Bari e Lecce, un tributo di proiezioni al regista italiano più famoso nel mondo, l’unico che abbia vinto quattro premi Oscar per altrettanti film, più una statuetta alla carriera. Ma in vista del 2013, ventennale della morte di Fellini (31 ottobre), l’“attenzione è sporadica”, come disse il produttore Peppino Amato alla conferenza stampa di La dolce vita. Impareggiabile gaffe in quel caso, poiché Amato intendeva dire “spasmodica”; amara verità stavolta. Né possiamo essere sicuri che i rari omaggi, al pari dell’intestazione di pizzerie e hotel alla Gradisca o ai Vitelloni nella natia Rimini o altrove, siano congrui allo spirito del maestro. Il quale confidava, sardonico e rassegnato: “Mio babbo voleva che facessi l'avvocato e mia mamma voleva che facessi il dottore, ma io ho fatto un aggettivo: il felliniano”.
Fellini non fu mai felliniano, a dispetto del talento da neologista: “paparazzo”, “amarcord”, “dolce vita”. Ovvero, tentò di sottrarsi allo stereotipo di situazioni e personaggi grotteschi, caricaturali, pletorici o, appunto, carnascialeschi, dal nostro piuttosto satireggiati, sebbene con la tenera complicità e la compassione circense proprie dell’autore meno incline a ideologizzare in tempi di ferree ideologie. Per dirne una, il “nostalgico” Fellini, mai del tutto accetto né ai cattolici né ai comunisti, fu il primo a fiutare l’incipiente strapotere della Tv berlusconiana. Infatti, oltre a battersi affinché i film sul piccolo schermo non fossero farciti di spot, presagì in Ginger e Fred (1985) la sensazione di vivere immersi in un reality show, in un orizzonte nel quale la finzione e la vita quotidiana tendono a confondersi e quasi a coincidere. È l’inquietante scenario odierno restituito in Reality, di Matteo Garrone, nel 2012.
Destino ingrato e paradossale, quello di Fellini, giacché poco dopo la morte, e in crescendo fino a oggi, quanto di smodato o di strambo è affibbiato alla sua cifra stilistica si è imposto nella società. Già in La dolce vita (1960) lo sguardo disincantato e straniante del regista sugli anni del boom riserva più di un’intuizione del tragicomico futuro italiano: allora i paparazzi e le parodie orgiastiche, dopo Fabrizio Corona e il “bunga bunga”. Senza la struggente invettiva di Pasolini contro il Palazzo, Fellini resta comunque un antropologo sul campo, capace di sublimare la commistione di pettegolezzo e di documentazione “in diretta”, di divismo e di vita quotidiana, di erotismo e di politica, di superficialità e di profondità.
Colleghi americani quali Rob Marshall (Nine, 2009), Woody Allen (To Rome with love, 2011) e Henry Bromell (Fellini Black and White, 2013) ne rivisitano i capolavori con esiti alterni o gli rendono omaggio. Un intento condiviso da Paolo Sorrentino, che in La grande bellezza (uscirà ad aprile) si avventura nella labirintica Roma della Dolce vita, mezzo secolo dopo. Alla capitale felliniana, fremente di passioni e di tribolazioni, dedica pagine intense e veritiere Sandra Petrignani nel suo Addio a Roma, fresco di stampa per Neri Pozza editore. “Coraggio, il meglio è passato”: quando Ennio Flaiano motteggia in via Veneto e dintorni, nessuno riconosce il cronista nell’aforista. Il meglio, nell’Italia smemorata, sarebbe ricordare degnamente i propri artisti, al posto di trasformarli in maschere e coriandoli di Amarcord. A proposito, la pellicola originale sul borgo di Titta e del “nevone”, del Rex e del pavone in piazza - questa sì, una buona notizia - sarà presto restaurata dalla Cineteca di Bologna diretta da Gian Luca Farinelli.
Quanto a Rimini, ormai meta turistica prediletta dai russi, ha indetto per il 2013 il cosiddetto “fellinianno”, che dovrebbe celebrare gli anniversari di I vitelloni (1953), 8 ½ (1963), Amarcord (1973) e E la nave va (1983), oltre naturalmente al ventennale. Il Comune romagnolo è guidato da giovani amministratori di centrosinistra: sindaco è il quarantenne Andrea Gnassi, per la cui elezione nel 2011 si spesero Zavoli, Procacci, Veronesi, Nesi; assessore alla Cultura è lo storico dell’arte Massimo Pulini. E se Gnassi batte giustamente sul tema della «smusealizzazione» del regista, tuttavia l'Associazione Federico Fellini, nata nel 1995 per volontà della sorella Maddalena e del Comune, “è temporaneamente chiusa in attesa della costituzione della nuova Fondazione”, come recita una malinconica epigrafe sul sito web. Ultimo direttore ne è stato il semiologo Paolo Fabbri, che insieme a un altro “storico” sodale riminese di Federico, l’editore Mario Guaraldi, nelle more ha deciso di rinverdirne il patrimonio onirico curando l’edizione in eBook del Libro dei miei sogni.
Secondo Fabbri e Guaraldi, il fascino psicoanalitico (junghiano) del Libro dei sogni conferma che l’indolente Fellini è riottoso alla galleria di signore prosperose e di macchiette erotomani tramandate in un immaginario “felliniano” tanto ammanierato quanto equivocato. Invero, perlopiù obliato. I suoi film, studiati in mezzo mondo, non vengono trasmessi dalla Rai e sono difficili da reperirsi in Dvd. In Italia vige una “dimenticanza postuma” dell’italiano che riserva il maggior numero di occorrenze in internet, marchi esclusi, fra cui primeggia l’emiliana “Ferrari” del Cavallino Rampante. Fellini è citato in ben 14 milioni di pagine online! Disse una volta con la sua vocina: “Il visionario è l’unico vero realista”. L’acronimo dell’enunciazione suona “Veluvre” ed è stato scelto da un gruppetto di ragazze del Sud quale nome di un’associazione impegnata a concepire e organizzare “visioni culturali”. In una piccola “città delle donne”, tanto per cambiare, il genio di Federico.
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