«Non c'era possibilità di fare una passeggiata in quel giorno. Ci era stato vagando, infatti, tra i cespugli di foglie un'ora al mattino». Lo riconoscete? È l’inizio di Jane Eyre di Charlotte Brontë, tradotto da Google Translate. Ma aspettate a ridere.
«Il n'y avait aucune possibilité de faire une promenade ce jour-là. Nous étions errants, en effet, dans les arbustes sans feuilles, une heure le matin». Anche questo è tradotto da Google Translate, lo stesso giorno alla stessa ora. E suona bene, anche se è perfezionabile. Lo stesso risultato si ottiene con spagnolo, portoghese, tedesco, cinese, giapponese, coreano e turco.
L’italiano arriverà tra poco, Big G ancora non ha un calendario preciso ma farà passare al nuovo sistema tutte le lingue, 8 al mese a partire da subito. Un lungo reportage del «New York Times Magazine» mi ha fatto scoprire l’appassionante storia dell’Intelligenza Artificiale (Ia) e l’esistenza di Google Brain, la divisione che si occupa dell’Ia e che ha ripreso dalle neuroscienze l’idea di rete neurale, applicandola ai computer per rendere «intelligente» non solo Translate ma tutti i prodotti Google. L’Ia è il campo di battaglia dei colossi informatici, su cui Facebook, Apple, Microsoft, Amazon e Baidu stanno spendendo cifre anche ingenti.
Una Neural-Network Architecture è riuscita a riconoscere l’immagine di un gatto senza averne conoscenze pregresse. Allo stesso modo, ora Translate non si basa più su regole grammaticali precaricate diverse per ogni coppia di lingue e su enormi corpora di corrispondenze di traduzione. Da un giorno all’altro è diventato un neonato, una filosofica tabula rasa che parte da più indietro ma ha potenzialità infinitamente più grandi. Gli è stato dato un nuovo cervello di algoritmi che gli fanno scandagliare le migliaia di server dell’azienda in cerca di similitudini tra le lingue. Le regole cerca di dedurle da solo, invece che riceverle dai suoi programmatori. E a mano a mano viene istruito sugli errori che commette.
Perché mi ha colpito tutto ciò? Non solo per il progresso in sé ma perché sono un traduttore editoriale. Traduco saggistica e narrativa e ho sempre pensato, come la quasi totalità dei miei colleghi, che l’innovazione tecnologica non sarebbe arrivata a tanto in tempi brevi, anzi, tra noi ci dicevamo che non ci sarebbe arrivata mai. Perché la complessità linguistica delle sfumature, dei sottintesi, delle citazioni, non sarebbe stata né comprensibile né replicabile da una «macchina», per quanto sofisticata.
La certezza veniva anche dal fatto che Translate esiste da dieci anni ma nel tempo non ha migliorato molto le sue performance. È perfino diventato il simbolo delle traduzioni malfatte: «Tradotto con Translate». Anche altri strumenti di Cat (Computer-Aided Translation), come il corpus IATE della Commissione europea o il software libero OmegaT, esistono da tempo e sono ormai giunti a un buon livello di perfezionamento, ma non hanno mai insidiato il dominio della lingua creativa e si sono rivelati utili solo per le traduzioni tecniche, ad esempio diritto o medicina. Ambiti in cui a una parola in lingua straniera corrisponde una e una sola parola in italiano e il rischio di ambiguità è prossimo allo zero.
Ma la lingua non tecnica, quella del romanzo o di tutti i giorni, è tutto fuorché chiara e univoca. È piena di ambiguità, sottigliezze, riferimenti culturali, ed è appunto qui che entra in gioco il traduttore editoriale, uomo o donna che sia, nel cercare non di sciogliere le ambiguità (questo è quello che fanno i Cat) ma di trasportarle possibilmente tutte intere e ricreare l’effetto nella lingua d’arrivo.
Sono stati creati gruppi su Facebook dove postare pezzi di romanzi famosi tradotti da Translate, per ridicolizzarlo e sensibilizzare i lettori sull’importanza di una traduzione ben fatta e soprattutto fatta da un umano. Un editore ha perfino pubblicato un libro di poesie tradotto con Translate. Nei sempre più numerosi corsi di traduzione e mediazione, io e i miei colleghi negli ultimi anni abbiamo cercato di porre l’accento sull’importanza della formazione del traduttore, dell’aggiornamento continuo, della comprensione della cultura prima ancora che della lingua.
Ci credevamo e ci crediamo perché l’atto del tradurre non è un lavoro meccanico ma altamente creativo, riconosciuto come tale anche dalla legge sul diritto d’autore che equipara i traduttori editoriali agli autori. Pensare di essere sostituiti da una «macchina» voleva dire contemplare la possibilità di computer umanoidi che sapessero pensare e manipolare il linguaggio, e a nessuno piaceva.
Dopo aver letto l’articolo ho chiesto un’opinione al collega Paolo Gallina, professore di Robotica all’Università di Trieste, uno che di macchine se ne intende. Secondo lui questa innovazione potrebbe portare a un paradosso: ora Translate diventerà un punto di riferimento per la traduzione, e si ritroverà ad essere un’autorità sul linguaggio che non parla attivamente il linguaggio di cui detterà l’uso. La sua unica vera lingua sarà una sorta di metalingua che non esiste, quella metalingua che viene usata all’interno del suo algoritmo come veicolo per passare i testi da una lingua all’altra.
Penso che abbia ragione, anche se assomiglia all’incubo dei linguisti. Ed è un timore professionale, oltre che esistenziale.
Siamo tanti, e già ora la nostra situazione non è tra le più rosee. In Italia guadagniamo in media meno dei colleghi tedeschi e francesi (e parecchio meno, ad esempio, dei norvegesi), percepiamo raramente le royalties sui libri tradotti ma solo compensi forfettari per traduzione e cessione dei diritti. Chi traduce a tempo pieno guadagna meno della cifra ritenuta dignitosa per vivere in un Paese avanzato. I gruppi che riuniscono i traduttori editoriali come il sindacato SLC-Strade hanno ottenuto negli ultimi anni il riconoscimento di condizioni lavorative migliori (contratto modello, assistenza sanitaria, royalty). Ma ora che cosa succederà?
Provo a rispondere: le case editrici utilizzeranno a mani basse il nuovo Translate, che (almeno per ora) è gratis. Tradurre costerà meno, avremo molte più traduzioni sul mercato e da lettori beneficeremo di una maggiore varietà editoriale. Per tradurre un romanzo ora non serviranno più tre mesi ma due settimane. Uno stesso traduttore potrà gestire molte più traduzioni nello stesso tempo e dovrà solo rivedere il lavoro di Translate. Dall’altro lato, sarà inevitabile che molti traduttori a minore specializzazione (ma pur sempre laureati) si ritroveranno senza lavoro, e chiuderanno molti corsi di traduzione. Qualcuno si chiederà se serve ancora studiare le materie umanistiche.
Non sarà un dramma, abbiamo affrontato molti cambiamenti tecnologici e nessuno (credo) rimpiange i vetturini di piazza perché sono stati sostituiti dalla diabolica automobile. Ma non sarà un dramma solo se cerchiamo di capire che c’è un bisogno urgente di cambiare il paradigma nel lavoro e nella formazione a tutti i livelli. Come dice Ken Robinson, non possiamo permetterci di buttare via il potenziale creativo in un’epoca dove all’arte viene data così grande importanza, e continuare a cullarci nell’idea che il mercato funziona da solo e che c’è bisogno solo di «tecnici».
Di sicuro possiamo dire che Google Translate finalmente parlerà un italiano comprensibile. Ma ora che sappiamo cosa ci guadagniamo, dovremo fare ancora più attenzione al lost in translation, a quello che nella traduzione si perde.
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