La riunione del Consiglio europeo del 23 aprile ha suscitato aspettative diffuse e commisurate alla straordinarietà della crisi che stiamo vivendo. Tuttavia, un giudizio sui risultati politici di tale passaggio deve necessariamente considerare che – per la propria natura istituzionale e per la complessità della situazione in corso – la risposta dell’Unione europea sia da valutare su una vasta serie di strumenti, per giunta legati a meccanismi decisionali differenti e su sfere di sovranità e competenze distinte.

Al contrario, nella percezione dell’opinione pubblica la difficoltà del momento ha anche giustificato e alimentato la richiesta di un simbolo forte – da qui anche il ricorso frequente alla proposta di eurobond e coronabond o il costante riferimento al modello del Piano Marshall - ovvero di un unico singolo strumento che offrisse in modo plastico l’immagine di una scelta concreta di svolta in questa fase storica.

Le decisioni assunte nelle ultime settimane vanno contestualizzate e lette come un momento culminante nella faticosa parabola delle discussioni tra i capi di Stato e di governo nell’ultimo decennio, un percorso avviato immediatamente dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e continuato in modo stagnante in tutta la fase dell’ultima crisi economico-finanziaria.

Per un commento più approfondito, il giudizio sull’esito del recente summit europeo necessita in primo luogo di tenere conto dei tempi e delle modalità in cui vive il sistema politico ed istituzionale dell’Unione, a cominciare dal fatto che il Consiglio europeo non svolge funzioni legislative dirette ma ha la funzione – per quanto importante – solamente di indirizzo politico.

Anche in questa occasione, come prisma sempre valido attraverso cui leggere l’evoluzione dell’integrazione europea, la categoria interpretativa del «non più, ma non ancora» può aiutare a valutare le conseguenze potenziali che la riunione di ieri ha comportato. Questo non significa che nel percorso dell’Unione non sia possibile individuare momenti di reale svolta, tuttavia occorre sempre attenzione nel leggere gli eventi in modo diacronico, per meglio comprendere i passaggi in grado di aprire future e più larghe strade di integrazione.

Nell’ultima riunione dei capi di Stato e di governo, per l’appunto, non abbiamo più assistito a una contrapposizione frontale e a una paralisi dettata dalla prevalenza del puro elemento intergovernativo. Allo stesso tempo, però, sono maturate in modo solo parziale quelle scelte che possono portare verso una piena mutualizzazione e condivisione di responsabilità per uno slancio netto in direzione dell’unione politica.

Un giudizio complete circa la risposta dell'Ue alla crisi – per quanto non esaustivo vista l’imprevedibilità dell’evoluzione del contesto politico – non poteva che essere parziale prima dell’ultimo Consiglio europeo. L’intesa per il via libera al Recovery Fund rappresenta, in questo senso, un momento molto importante perché introduce uno strumento innovativo nella storia recente delle istituzioni europee, andando ad aggiungersi agli oltre 500 miliardi messi a disposizione con la decisione dell’eurogruppo di due settimane fa, attraverso i 100 miliardi attivati dallo strumento contro la disoccupazione garantito da tutti gli Stati membri (il Sure), i 200 miliardi supplementari della Bei e la nuova dotazione del Mes a condizionalità leggera per le spese sanitarie dirette e indirette. L’accordo ha il potenziale per far avanzare, dopo un lungo stallo, il percorso dell’integrazione politica ed economica, in attesa dei dettagli finanziari e tecnici della proposta che la Commissione europea presenterà il 6 maggio.

Nell’analizzare l’esito del Consiglio europeo, un commento della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» rimandava alla figura popolare dello Schwarzer Peter, espressione tedesca per definire un capro espiatorio e l’esimersi dalle proprie responsabilità. In realtà le dichiarazioni del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, al termine del summit sono state molto chiare: sappiamo con certezza che il Fondo sarà attivato e che la sua implementazione comporterà lo stanziamento di nuove risorse.

La notizia, quindi, non è solo positiva in sé – come talora accade nei commenti ispirati a una sorta di europeismo irenico - per il fatto che finalmente sia stata trovata una posizione comune, per giunta in tempi rapidi nonostante le difficoltà determinate dalle nuove forme digitali della diplomazia. Guardando alle posizioni di partenza, infatti, il passo avanti è ancor più rilevante se si considera il muro opposto fino a solo un mese fa da parte di alcuni governi, convinti che una risposta anticrisi autonoma, Paese per Paese e con l'ombrello Bce, sarebbe stata sufficiente.

In modo molto schematico, è possibile sostenere che le istanze di rottura avanzate a fine marzo nella lettera dei 9 capi di Stato e di governo - tra cui Macron, Conte, Sanchez, Costa - siano state assimilate e rese disponibili in una forma mediata dalla proposta tedesca di ricorrere al bilancio comunitario – e non direttamente all’emissione comune di forme di debito – e da quella francese di istituire un fondo ad hoc per la ripresa, come strumento per aprire una nuova fase di solidarietà e di progressiva unione fiscale. Non vanno sottovalutati, in questo senso, gli applausi che hanno interrotto le dichiarazioni della Cancelliera tedesca Angela Merkel presso il Bundestag poche ore prima dell’avvio del summit, a seguito della sua affermazione netta in merito alla disponibilità tedesca ad aumentare il proprio contributo al budget europeo, «nell’obiettivo di non lasciare indietro nessun Paese».

Per la prima volta dopo gli anni dell’austerità il punto politico è stato segnato. Rispetto alle misure messe in campo dopo la crisi del 2008 quando, invece di scelte anticicliche a favore di nuovi investimenti si percorse la strada della riduzione del budget comune, questa volta il bilancio europeo sarà aumentato, permettendo quindi di lanciare il Recovery Fund grazie all’utilizzo della soglia tra pagamenti e impegni di bilancio (come si dice in linguaggio tecnico, headroom) che creerà lo spazio per fornire garanzie o bond.

La capacità di questa decisione di aprire una strada verso una vera unione economica dipenderà ora non solo dalla tempistica e dalla dotazione finanziaria del Fondo, la cui stima di 1.500 miliardi, come richiesto dai governi più progressisti, corrisponderebbe a quasi il 10% del Pil europeo. Allo stesso tempo sarà cruciale, infatti, comprendere come questo sarà gestito - ovvero quale sarà la destinazione prioritaria per gli investimenti - e in che proporzione i nuovi stanziamenti saranno destinati a fondo perduto. Appare evidente che non basteranno solo prestiti - per quanto a tassi agevolati - ma servirà una quota importante di veri bond per confermare la scelta di una svolta politica.

Già le precedenti decisioni assunte dalle istituzioni europee – la Commissione prima, l’accordo dell’Eurogruppo a fine marzo poi – hanno d’altronde posto in essere una serie di scelte che – sebbene chiaramente presentate come transitorie e urgenti – possono aprire la prospettiva di una nuova e più flessibile governance su nodi essenziali quali gli aiuti di Stato, lo scorporo degli investimenti produttivi tra i criteri di stabilità macro-economica, l’utilizzo dei fondi di coesione.

Avere introdotto delle deroghe che permettono di valicare i limiti posti dalla legislazione Ue non implica uno stato permanente di eccezionalità, ma certamente pone le premesse per far avanzare il dibattito, già aperto da lungo tempo, su un’applicazione nuova di regole scritte quasi trent’anni fa, in un contesto economico e globale molto diverso. Una traccia da seguire per valutare gli effetti della risposta europea alla crisi, quindi, oltre che sulla reale dotazione finanziaria messa a disposizione dovrà anche essere focalizzata, nel lungo periodo, sugli effetti verso un possibile nuovo corso economico e sulla capacità di riflettere su prospettive istituzionali e di policy di più ampio respiro.

Questo può essere, ad esempio, il caso del Sure che, sebbene sia uno strumento da 100 miliardi ancora temporaneo e fondato su prestiti elargiti attraverso garanzie attivate dagli Stati membri, potrebbe andare a configurarsi come una vera assicurazione europea contro la disoccupazione, come fu richiesto dai governi italiani tra il 2015 e 2018, misura che ora la Commissione europea ha confermato di voler proporre all’inizio del 2021. Anche in considerazione di tutti questi elementi, il dibattito pubblico suscitato nel nostro Paese dalla dialettica in merito all’utilizzo del Mes o dalla polemica ontologica sugli eurobond è stato considerato da molti commentatori come un’occasione sprecata per riflettere sulle priorità di fondo e sui concreti obiettivi di svolta verso una più forte unione politica ed economica in Europa.

Andando oltre le dispute nominalistiche, infatti, le indicazioni uscite dalla riunione dell’Eurogruppo e successivamente l’orientamento comune del Consiglio europeo sembrano pragmaticamente procedere nella direzione auspicata di un inedito strumento, orientato verso investimenti futuri, che punti a non aumentare ulteriormente i debiti nazionali e che sia ancorato al bilancio Ue, fino anche a prefigurare l’erogazione di contributi a fondo perduto.

Pertanto, la vera domanda aperta per il nostro dibattito pubblico dovrebbe essere semmai come spendere e verso quali priorità indirizzare i futuri investimenti che ne deriveranno, considerando – come è noto – che il punto essenziale del dilemma economico del nostro paese non verte soltanto nei livelli di indebitamento quanto piuttosto nella bassissima crescita.

Le decisioni assunte dai capi di Stato e di governo aprono quindi la possibilità – se la proposta della Commissione in merito al futuro bilancio pluriennale dell’Unione sarà conseguente – di segnare un primo cambio di passo nella ristrutturazione della governance della zona euro, premessa nel lungo periodo di una nuova stagione di unione politica ed economica. Come per ogni decisione politica, tuttavia, occorrerà poi valutare con estrema attenzione l’impatto sulle opinioni pubbliche e sull’elettorato, soprattutto in quei Paesi, come l’Italia, in cui lo scivolamento verso posizioni di incertezza – se non di vero scetticismo – nei confronti delle istituzioni europee comincia a manifestarsi in maniera sempre più palese, accelerato dalle conseguenze sociali della crisi in corso.