Il 7 ottobre la Commissione affari costituzionali del Senato, impegnata a valutare l’estensione dell’obbligo del green-pass ai luoghi di lavoro, ha svolto alcune audizioni informali, una di queste a Giorgio Agamben. L’intervento è disponibile in video, ma è stato inizialmente rimosso da alcune piattaforme social media provviste di filtro contro la disinformazione sul Covid-19. In esso Agamben afferma che lo Stato non si sente di assumere la responsabilità per un vaccino che non ha terminato la sua fase di sperimentazione; inoltre sostiene che il green-pass sia misura discriminatoria, con argomentazioni già svolte in varie sedi negli ultimi mesi, alcune condivise e coautorate da Massimo Cacciari (si veda ad esempio A proposito del decreto sul "green pass", pubblicato sul sito web dell’Istituto italiano di studi filosofici il 26 luglio scorso).
Mettendo da parte – non senza fatica – il contenuto dell’intervento, prendiamolo qui come occasione per sollevare una questione ampia: qual è il ruolo dei filosofi nel dibattito pubblico italiano oggi? Per dibattito pubblico intendiamo qui la discussione di temi di rilevanza etica e pratica svolta all’esterno delle sedi istituzionali, quindi sui giornali, le riviste e i social media, che coinvolge i cittadini e vari tipi di esperti. La pandemia ci ha reso probabilmente più consapevoli che il dibattito pubblico c’è e deve esserci, perché le basi di evidenza fornite dalla scienza non determinano univocamente le decisioni della politica: i mitici «dati» non ci dicono da soli che cosa fare.
Anche la domanda sul ruolo dei filosofi nel dibattito pubblico può avere prima di tutto una risposta basata sui dati: un’analisi quantitativa dei media potrebbe restituirci un’immagine accurata di chi sono i filosofi e le filosofe che partecipano e che hanno rilevanza, e quanta ne hanno. L’ipotesi non confermata che qui si propone, provocatoriamente, è che la rilevanza sia poca, e che i filosofi attivi, interpellati e visibili nel dibattito pubblico siano – per dirla in modo semplice – sempre gli stessi. Da un lato ci sono quelli dediti al compito di épater la bourgeoisie, che consiste nel sostenere posizioni estreme contro un supposto moralismo o scientismo comune. Questo tende spesso all’esito di sostenere le istanze del populismo, se non della politica eversiva, come nel caso dei recenti disordini no-vax e no-green pass. Dall’altro lato, i filosofi visibili e interpellati nel dibattito pubblico sono gli autori di libri piacevoli e di successo ascrivibili alla tipologia editoriale dell’auto-aiuto: sul tornare alla natura o liberarsi dall’ansia del successo con citazioni dagli antichi greci ed esercizi. Mancano non solo gli Habermas e i Bernard Williams, ma anche, salvo eccezioni, chi si cimenti a trovare tempo e spazio per una presenza critica ma razionale nel dibattito democratico.
Quanta rilevanza hanno i filosofi nel dibattito pubblico? E quale ruolo dovrebbero ricoprire? Ci sono questioni che vanno al di là delle loro competenze professionali specifiche e che quindi non andrebbero toccate?
La domanda sul ruolo dei filosofi può poi intendersi in un’accezione normativa: quale ruolo dovrebbero avere? Anche qui si apre la possibilità di un’indagine, questa volta di tipo argomentativo, perché è in gioco la natura della filosofia. Esiste almeno un argomento in filosofia contemporanea per la conclusione che i filosofi non devono preoccuparsi di avere un ruolo nel dibattito pubblico. Si basa su un’idea di filosofia come disciplina che si occupa di problemi specifici a essa interni (come una scienza normale di Kuhn), con un suo vocabolario tecnico, e su un principio di competenza epistemica che prescrive di non affrontare questioni che vadano al di là del proprio campo di specializzazione. Timothy Williamson ha una posizione simile (cfr. Philosophical Method: a Very Short Introduction, Oxford University Press, 2020) e anche il filosofo analitico italiano Diego Marconi ne parla in un libro di qualche tempo fa (Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, 2007). La seconda premessa di questo argomento, perché la conclusione segua, è che il dibattito pubblico contiene questioni che vanno al di là della competenza professionale specifica dei filosofi.
Ma è vero questo? Se ne potrebbe discutere. Forse non è fuori dalla competenza dei filosofi morali chiedersi, ad esempio, se il posto in terapia intensiva in condizioni di emergenza e scarsità vada assegnato a chi ha condizioni cliniche migliori, a chi ha più anni di vita davanti per età, in base a entrambi i criteri, oppure in semplice ordine di arrivo. Questa scelta etica, se viene presa dal medico, sarà comunque dettata dalla propria competenza o intuizione filosofica, che generalmente è minore di quella del filosofo. Faccio riferimento qui al problema posto nel marzo del 2020 da un documento della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva e del successivo parere del Comitato nazionale di Bioetica, e al dibattito che ne è seguito – cui i filosofi sono intervenuti in virtù del loro ruolo istituzionale.
Per fare un altro esempio: forse non è fuori dalla competenza dei filosofi della scienza chiedersi quali assunzioni concettuali e di valore siano implicite nei modelli epidemiologici, o in quelli sul cambiamento climatico, o nella ricerca farmacologica in medicina. Tanto per essere chiari, è questo che i filosofi della scienza contemporanei fanno nelle loro pubblicazioni specialistiche, per cui l’uscita nel dibattito pubblico non è affatto occuparsi di altro.
Se si hanno le risorse argomentative, culturali e in parte istituzionali per chiarire un’idea che si ritiene dannosa e confusa, oppure argomentare contro una tesi che si ritiene dannosa o falsa, perché seguita da molti, è bene farlo
L’argomento della filosofia come professione specialistica ha poi un’altra versione, che si potrebbe sintetizzare così: alcuni degli interventi dei filosofi pubblici – ad esempio quello di Agamben che ho introdotto in apertura – sono al di sotto degli standard riconosciuti dalla comunità accademica, per cui non vale la pena di analizzarli, criticarli e nemmeno parlarne. Se anche fosse – e se fosse possibile affermarlo prima, appunto, di analizzare in dettaglio tali contributi – si potrebbe obiettare con un principio di responsabilità epistemica: se si hanno le risorse argomentative, culturali e in parte istituzionali per chiarire un’idea che si ritiene dannosa e confusa, oppure argomentare contro una tesi che si ritiene dannosa o falsa, perché seguita da molti, è bene farlo, indipendentemente da chi la propone e in quale sede. Probabilmente un tale principio di responsabilità epistemica presuppone un’idea del dibattito pubblico come bene comune.
Dopo avere brevemente illustrato quali possano essere le risposte opposte alla domanda normativa sul ruolo dei filosofi nel dibattito pubblico – quale dovrebbe essere – resta lo spazio per una rapida considerazione strutturale. La relativa latitanza dei filosofi accademici nel dibattito pubblico, o la polarizzazione della popolarità verso alcune figure, potrebbe avere anche una determinante nei meccanismi di funzionamento dell’editoria: i filosofi visibili nel dibattito pubblico non sono forse quelli che pubblicano libri nella nostra lingua e che «vendono bene»? La trasformazione verso la semplificazione dei corsi universitari, in atto da vari decenni, ha indebolito economicamente le case editrici che, di conseguenza, sembrano dover abbandonare le scelte culturali di lungo respiro (le traduzioni di volumi importanti, ad esempio, che hanno formato generazioni di studiosi fino agli anni Novanta circa), privilegiando, per le discipline umanistiche, i manuali oppure puntando occasionalmente sul pamphlet controverso. Questo sembra un fatto, più che una scusa, con cui la comunità filosofica, se incline alla partecipazione pubblica, deve fare i conti per riflettere sul proprio ruolo nella discussione allargata delle idee.
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