Il potere dello sport. Il 9 febbraio gli atleti rappresentanti la Repubblica di Corea e la Repubblica Popolare Democratica di Corea chiuderanno la sfilata della cerimonia d’inaugurazione della XXIII edizione dei Giochi olimpici invernali a PyeongChang, marciando insieme dietro alla bandiera della Corea unificata. Il giorno successivo, sotto le medesime insegne, scenderà sul ghiaccio contro la Svizzera nel torneo di hockey femminile una squadra coreana unificata.
L’annuncio di queste decisioni dall’elevato significato politico-simbolico – che hanno portato il 9 gennaio ai primi colloqui formali fra i due paesi dopo quattro anni e che sono state sancite ufficialmente dal Comitato olimpico internazionale (Cio) il 20 dello stesso mese – ha colto di sorpresa quasi tutti gli osservatori. Del resto, a causa dei test balistici nucleari voluti dal presidente nordcoreano Kim Jong-un e le provocatorie reazioni da parte di quello statunitense, Donald Trump, la penisola coreana sembrava essere una polveriera sul punto di esplodere. Inoltre, fino a quel momento, la stessa partecipazione degli atleti nordcoreani era oltremodo in dubbio, essendo ormai passate le scadenze per le iscrizioni degli atleti.
Il dialogo fra i due Paesi divisi dal 38o parallelo è dunque riaperto. Per il presidente del Coni «tutte le nubi si sono dissipate e dove non sono riusciti i grandi della Terra è riuscito lo sport». Tuttavia è un errore dare tutto il merito alle Olimpiadi. Persino il presidente del Cio, pur facendo rientrare questa decisione nell’ideale del cosiddetto «spirito olimpico», nel ringraziarli, ha dovuto ammettere che erano stati i due governi ad aver «spianato la strada» all’accordo.
Al di là della retorica delle istituzioni sportive internazionali, spesso peraltro rilanciata dalla stampa specialistica, non si tratta di un caso in cui in autonomia lo sport si dimostra capace di abbattere le barriere politiche, quanto piuttosto di una situazione in cui l’elevata visibilità dello sport e la sua tutto sommato marginale importanza rispetto alle questioni vitali di uno Stato è stata sfruttata dalle diplomazie dei due Paesi per mandare un messaggio politico. Siamo quindi davanti a una vera e propria strumentalizzazione dello sport, che però, in questa circostanza, è allo stesso tempo pienamente compatibile e funzionale all’ideologia olimpica e ai valori promossi dal Cio.
Piuttosto i Giochi di PyeongChang si sono rivelati un’importante finestra di opportunità. Essendo molto di più di un semplice evento sportivo, qualsiasi decisione presa dal regime di Kim Jong-un nei confronti di un’edizione organizzata in Repubblica di Corea sarebbe stata interpretata come politica. Di conseguenza la diplomazia di Pyongyang aveva davanti a sé quattro soluzioni: boicottare l’evento, non partecipare senza addurre motivazioni politiche, optare per una semplice partecipazione di basso profilo, oppure – come scelto dal leader nordcoreano – politicizzare in senso positivo la partecipazione.
Non è del resto la prima volta che lo sport viene esplicitamente adottato come strumento diplomatico nel contesto delle relazioni inter-coreane. Nel 1988, alla vigilia delle Olimpiadi di Seoul, la Repubblica popolare democratica di Corea aveva deciso di boicottare l’evento. Tre anni più tardi, in un contesto politico stravolto dalla fine della Guerra fredda e dalla riunificazione tedesca, lo sport era servito ai due Paesi per simboleggiare il riavvicinamento diplomatico in corso: una squadra coreana unificata aveva partecipato al Campionato del mondo di tennistavolo in Giappone, vincendo anche un oro nel doppio femminile, e al Campionato del mondo di calcio under 20 in Portogallo, raggiungendo i quarti di finale. Nel quadro della «sunshine policy», promossa dall’allora presidente sudcoreano Kim Dae-jung per migliorare le relazioni fra i due Paesi, in occasione delle Olimpiadi di Sydney 2000 le due Coree avevano invece marciato congiuntamente dietro la «bandiera dell’unificazione». L’esperimento era stato poi riproposto ad Atene 2004 e a Torino 2006, ma dall’anno successivo, con la sconfitta dei democratici e l’elezione del conservatore Lee Myung-bak, la diplomazia sportiva venne riposta in un cassetto. Non è quindi un caso che con l’elezione di Moon Jae-in e il ritorno al governo del Partito democratico questa la carta della parata degli atleti condivisa sia stata rilanciata.
Sarebbe ingenuo ritenere che le Olimpiadi possano risolvere le questioni aperte fra Seoul e Pyongyang. Tuttavia, data la sua natura politicamente periferica ma altamente visibile, il suo simbolismo strettamente correlato alla geopolitica e la sua ideologia che promuove apertamente la pace e la fratellanza fra i popoli, lo sport olimpico è stato scelto in quanto rappresenta uno dei terreni più adatti per comunicare questi segnali di distensione, nonché la cornice ideale per affrontare le molte questioni irrisolte fra i due paesi, ancora formalmente in stato di guerra.
Più che riuscire ad arrivare laddove la politica fallisce – come vorrebbe una certa retorica – la vera forza dello sport è quella di aver offerto un’occasione e un luogo neutrale di incontro altrimenti difficilmente riproducibile. È difficile cogliere al momento quale sia l’obiettivo strategico di Kim Jong-un. Resta il fatto che le gare olimpiche offriranno l’occasione per incontri informali fondamentali per provare a ridefinire in maniera meno conflittuale le relazioni inter-coreane. Se ciò avverrà, Moon Jae-in sarà considerato come il grande vincitore di questa partita politica in cui il principale sconfitto appare Donald Trump.
Al momento però il maggior beneficiario è senz’altro il Cio, che si è dimostrato sufficientemente flessibile per cambiare i propri regolamenti. Se far marciare le due delegazioni sotto un’unica bandiera non rappresentava certo una novità, non si era mai vista una squadra di due diversi comitati olimpici gareggiare unificata in una singola disciplina sportiva. Grazie al suo pragmatismo e a una sensibilità politica di alto profilo, il Cio è stato quindi capace di sfruttare a vantaggio della propria immagine questa operazione di diplomazia sportiva costruita sull’asse Pyeongyang-Seoul.
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