Suddivido queste riflessioni in due gruppi. Il primo riguarda gli orientamenti dell’elettorato di centrosinistra milanese. Il secondo il metodo delle primarie per scegliere i candidati a cariche istituzionali monocratiche.Concludevo il mio ultimo articolo dedicato alle primarie del Pd («Corriere della Sera», 29 gennaio) affermando che, se avessero avuto una buona partecipazione, esse avrebbero dato una indicazione importante sugli orientamenti dell’elettorato di centrosinistra. La buona partecipazione c’è stata (oltre 60.000 partecipanti) e con essa sono venute indicazioni significative: il 42,3% dei consensi sono andati a Beppe Sala, un manager senza esperienza politica schieratosi ora con il centrosinistra, il 33,9% a Francesca Balzani, una candidata con un buon pedigree politico di centrosinistra ed eccellenti credenziali professionali e amministrative, e il 23% a Pierfrancesco Majorino, uomo di partito e della sinistra tradizionale, una delle figure più note della giunta Pisapia.
Circostanze particolari impediscono di estendere queste indicazioni ad altre zone del Paese, anche a città con caratteri simili a Milano: elevato sviluppo economico, una buona coesione sociale e un partito ancora funzionante. Tre sono le circostanze cui penso: l’eccezionale notorietà dell’ex-commissario Expo, la presenza di due candidati che hanno diviso l’elettorato anti-Sala e il ritardo nella candidatura di Francesca Balzani, che l’ha molto svantaggiata. Mentre a livello di dirigenti l’adesione alla linea nazionale del partito sembra a Milano piuttosto ampia – si pensi anche alla convergenza sulla candidatura di Sala di molti dei più noti assessori della giunta Pisapia – a livello di simpatizzanti i dati delle primarie dicono che ci sono ancora significative resistenze.
Tentiamo un piccolo esperimento mentale: se Francesca Balzani non si fosse presentata, come si sarebbero distribuiti i suoi voti tra Sala e Majorino? È assai probabile che Sala, partendo dal 42,3%, ne avrebbe ricevuto una quota più che sufficiente a vincere le primarie, ma che l’area di sinistra avrebbe largamente superato il 23% che Majorino ha effettivamente ottenuto. Al momento non sono però a conoscenza di dati di sondaggio (“Se voti per Balzani, quale sarebbe la tua seconda scelta?”) a sostegno di questa opinione.
Rimane ovviamente da vedere se i militanti che si sono impegnati a sostenere i candidati sconfitti nelle primarie si impegneranno a sostenere la vera campagna elettorale, per Beppe Sala, nel prossimo giugno. O se invece se ne staranno a casa o appoggeranno qualche candidatura di sinistra che è possibile venga lanciata nei prossimi mesi. A più lunga scadenza è anche da vedere se Sala – qualora prevalga nel voto di giugno, e ciò è probabile se non incapperà in incidenti giudiziari – riuscirà a tener vivo il grado di partecipazione politica che ha sostenuto il partito durante la giunta Pisapia. Ma, appunto, si tratta di conseguenze di medio-lungo periodo cui torneremo quando sarà il tempo di farlo. Ora è il caso di passare al secondo gruppo di riflessioni, quello sulle primarie.
Le primarie sono un tratto genetico del Pd e sono destinate a restare, perché corrispondono a criteri di filosofia democratica e di convenienza elettorale molto forti, radicati nel partito e regolati nel suo statuto. Quali le lezioni dalle primarie milanesi? Tre soprattutto. Sulla prima non c’è nulla da fare: è stato osservato che il centrodestra o altri partiti non fanno primarie e si limitano ad aspettare l’esito di quelle Pd, per poi designare il candidato più idoneo a contrastare quello scelto dagli avversari.
Questo è un comportamento opportunistico, ma siccome non siamo in America – stiamo osservando in questi giorni come funzionano, in parallelo, le primarie per il Presidente nei due grandi partiti americani – non c’è nulla da fare a meno di intervenire in via legislativa, il che è difficile e forse inopportuno. Al Pd conviene comunque fare le primarie, perché – al di là delle ragioni ideologiche – esse sono sia uno strumento di mobilitazione dei propri attivisti e simpatizzanti, sia un efficace, e gratuito, mezzo di propaganda: le primarie sono una gara, e sulle gare i media si tuffano.
Dunque le primarie convengono, se si ha la struttura per farle e se sono fatte bene, cioè se sono molto partecipate e avvengono senza contestazioni serie: queste sono le altre due lezioni. Il requisito della partecipazione è importante perché conduce a sondare una cerchia di simpatizzanti molto superiore a quella degli iscritti e degli ideologizzati, che possono esprimere opinioni assai diverse da quelle della gran massa dei votanti e, in tal modo, dare messaggi sbagliati al partito. Ed è importante tagliare alla radice contestazioni serie: partecipanti alle primarie dovrebbero essere solo cittadini con diritto di voto nell’elezione del sindaco.
Questo è sostanzialmente avvenuto nelle primarie milanesi (i nominativi dei diversi seggi delle primarie erano desunti dalle sezioni elettorali del comune), con l’eccezione degli stranieri residenti e dei minori tra i 16 e i 18 anni. Sono eccezioni la cui intenzione democratica è comprensibile e oltretutto allargano la partecipazione ma, come mostra l’attenzione dedicata dai media al caso dei cinesi, esse possono inquinare lo stesso significato democratico delle primarie, anche quando si tratta di piccoli numeri. Meglio evitarle.
[Questo articolo è uscito sul «Corriere della Sera» il 10 febbraio]
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