Prima di uscire di casa mia figlia mi chiede: “babbo che dici, prendo l’ombrello?”. Do uno sguardo alla finestra e sorridendo le rispondo: “mah… hanno detto che potrebbe piovere, ma vedi tu”. La scelta è lieve, da un lato potrebbe portare l’ombrello nello zaino inutilmente, dall’altro, se non lo porta, al peggio si prende un acquazzone, non può nuocerle più dei gavettoni di fine anno scolastico.
La memoria che ho delle scosse sismiche in Emilia-Romagna è diversa, tutt’altro che lieve, e porta il peso della scelta che ho fatto tra restare in casa o meno. In scala sociale con responsabilità civili, quella scelta si amplifica fino a toccare gli estremi di procurato allarme e omicidio colposo del codice penale. Sui giornali, le tv e soprattutto in internet si trovano molte discussioni sui fatti recenti legati al sisma dell’Aquila. Aftershocks in the Courtroom, di Edwin Cartlidge (“Science”, Vol. 338, n. 6104, 12 October 2012) fa una dettagliata analisi dei fatti. In questa sede vorremmo proporre alcune riflessioni generali di natura scientifica ma non solo.
Perché non sappiamo fare previsioni accurate? Non è forse vero che la scienza domina o quantomeno comprende la materia, la realtà fisica che ci circonda? Quella scienza ci ha portati quasi mezzo secolo fa sulla luna e riportati a terra, ci fa parlare a quattrocchi con persone dall’altra parte del mondo, ci permette di costruire città grandi come montagne. Ebbene quella scienza, nonostante possa molto, non è in grado di “prevedere” molti fenomeni naturali. Possiamo fare ora osservazioni accurate ma in certi casi quella accuratezza, per grande che sia, non ci permetterà di prevedere bene cosa accadrà tra poco. Questa condizione è chiamata dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali o caos. Essa rende impraticabile la previsione dell’esito del lancio della moneta, la previsione accurata delle condizioni atmosferiche, e sembra essere all’origine anche della difficile previsione delle scosse sismiche. L’illusione del controllo e della previsione è talmente persistente che, come ci raccontava Freeman Dyson (“Notices of the American Mathematical Society”, Vol. 56, n. 2, 2008), ha fatto cadere in errore anche grandi scienziati quali John von Neumann. Egli valutava, negli anni Cinquanta, che si sarebbe potuto, in un decennio, con l’ausilio delle macchine calcolatrici di cui era un esperto conoscitore, non solo prevedere, ma anche forzare il comportamento meteorologico e disinnescare catastrofi naturali come inondazioni e uragani. Oggi sappiamo che persino il sistema solare, ritenuto il prototipo del moto prevedibile, è un sistema caotico, sebbene affetto da una forma lieve di caoticità che dovrebbe garantirci la stabilità per miliardi di anni.
È un fatto, tuttavia, che il pubblico continua ad aspettarsi risposte “bianco o nero” anche in quei casi in cui la scienza non sa darle. La comprensione dei fenomeni fisici in linguaggio matematico, da Galileo in poi, ha prodotto progressi tecnologici talmente imponenti da finire sotto gli occhi di tutti, ben oltre le ristrette cerchie da cui è sorta. La pubblica visibilità del potere della scienza non è andata però di pari passo con la diffusione dei suoi contenuti, del suo valore e neppure dei suoi limiti. Comunicare contenuti e limiti della scienza è più difficile, per certi versi, che insegnarla. Ci sono poi anche delle responsabilità per questa mancata efficacia della comunicazione: la riluttanza o l’incapacità di comunicare in coloro che la scienza la fanno e un sistema di istruzione che si è progressivamente scollato dalla cultura scientifica. Il risultato netto è che l’informazione scientifica non si diffonde. In queste condizioni, dopo un disastro naturale come un terremoto o uno tsunami, le credenze e le aspettative popolari, talvolta erronee, possono creare malcontenti e condurre a un’atmosfera non serena. Certo, è bene accertare che il disastro non fosse prevedibile e in quel caso appurare se la sua impredicibilità sia stata correttamente comunicata alla popolazione. Al fine di salvare vite umane con le risorse a disposizione, sarebbe però anche più utile affrontare seriamente il problema della prevenzione, dato che essa è possibile anche in condizioni di non predicibilità. Scienza e tecnologia infatti sono molto efficaci nell’identificare strategie per limitare i danni. Non sappiamo prevedere i terremoti, ma sappiamo come costruire edifici resistenti. Per ogni edificio inoltre, sappiamo stimare il grado di resistenza alle scosse integrando informazioni ingegneristiche sulla sua struttura con quelle geologiche sul terreno sottostante. Qualche domanda può servire a farsi un’idea delle condizioni a riguardo nel nostro Paese: le norme antisismiche di costruzione sono rispettate? I terreni edificabili sono geologicamente idonei? Il lettore ha qualche informazione sulla qualità sismica della propria casa? Abbiamo agevolazioni fiscali per mettere a norma le nostre abitazioni?
La prevenzione è possibile e alcuni Paesi come il Giappone o la California ne sono la prova. Essi mostrano che organizzazione e forza politica raggiungono degli straordinari risultati basandosi sulle conoscenze scientifiche che possiede l’intera comunità internazionale. Coi grandi rischi serve soprattutto, ripetiamolo ancora, quello che più ci difetta, cioè organizzazione e forza politica.
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