Papa Francesco, senza dubbio, è un anti-elitario. La sua biografia, il suo linguaggio e il suo messaggio sono saldamente radicati in una «teologia del popolo». Ma basta questo per affibbiargli l’etichetta di populista? La domanda è importante per due motivi; in primo luogo, per comprendere Francesco e chi gli si oppone; in secondo luogo, per comprendere fino a che punto la Chiesa cattolica fa parte dell’«era del populismo» in cui stiamo vivendo. L’etichetta di populista è uno degli strumenti più sfruttati da chi vuole respingere il messaggio di questo papa latinoamericano che invoca un sistema sociale ed economico più giusto.
Gli avversari di Francesco citano a riprova di ciò i suoi clamorosi commenti sul candidato populista alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump. «Una persona che pensa soltanto a fare muri, sia dove sia, e non a fare ponti, non è cristiana. Questo non è nel Vangelo», ha detto il settantanovenne papa ai giornalisti al termine del suo recente viaggio in Messico. «Poi, quello che mi diceva, cosa consiglierei, votare o non votare: non mi immischio. Soltanto dico: se dice queste cose, quest’uomo non è cristiano. Bisogna vedere se lui ha detto queste cose. E per questo do il beneficio del dubbio», ha aggiunto.
Il più rinomato degli autorevoli avversari cattolici di Francesco, il columnist conservatore Ross Douthat, non si è lasciato sfuggire queste osservazioni per concludere in un articolo apparso sul «New York Times» che Trump e Francesco sono entrambi populisti. Tuttavia, ci sono molte più differenze che analogie tra questo papa gesuita argentino e il miliardario che si è candidato alla presidenza degli Stati Uniti d’America.
L’accusa di populismo rivolta a Francesco in realtà è assai più rivelatrice del paesaggio morale e intellettuale del mondo occidentale in cui oggi opera la Chiesa. Prima di tutto bisogna chiedersi chi si erge a scagliare l’accusa di populismo al Papa. È interessante notare che quei cattolici che ideologicamente gli si contrappongono sono i rappresentanti di un populismo cattolico tipico delle élite. Il menzionato articolista del «New York Times» (un ex alunno dell’Università di Harvard, uno dei simboli dell’elitismo americano) pochi mesi or sono si intratteneva sull’idea tipicamente populista che i teologi professionisti non siano soggetti degni (almeno) di rispetto nella pubblica arena quando è in gioco una «guerra civile nella Chiesa», a suo dire scatenata da papa Francesco. Il defunto giudice della Corte Suprema federale Antonin Scalia (altro ex alunno dell’Università di Harvard) incarnava un genere di cattolicesimo che si esalta nello schernire quelli che hanno ricevuto la loro istruzione dall’élite accademica laica e che si tengono aggiornati attraverso i media.
Il populismo nella Chiesa è un fenomeno molto complesso, legato a un sentimento di nostalgia per i tempi in cui era chiaro chi era al comando e chi invece era la massa. Ne è un esempio la natura elitaria dell’accusa di populismo sferrata contro la riforma della liturgia e contro l’adozione delle lingue vernacolari.
Non è corretto affermare che la battaglia di intellettuali del calibro di Agatha Christie, di Cristina Campo e più di recente del tedesco Martin Mosebach sia stata una campagna populista finalizzata al ritorno alla Messa in latino. Quello che costoro hanno invocato è stato il recupero di qualcosa che era popolare, nel senso che le persone lo praticavano pur non comprendendolo. Essi difendevano un presunto cattolicesimo popolare preconciliare. Questo atteggiamento tuttavia è intrinsecamente elitario.
Ogni discorso sul populismo teologico deve rifarsi a un concetto di «popolo». Il fatto è che oggi è diventato difficile identificare «il popolo» nella Chiesa, così come lo è anche nel discorso politico.
Il XX secolo è stato l’età della mobilitazione delle masse sia nello Stato-nazione che nella Chiesa. Quel tipo di masse è stato sostituito da una compagine sociale ed ecclesiale molto più frammentata. Allora era facile identificare l’élite cattolica con il clero, gli intellettuali e i leader politici cattolici. Oggi la leadership del clero non è affatto scontata, e vi sono leader laici cattolici la cui voce conta più di quella di molti vescovi e cardinali.
D’altra parte, «il popolo» è ancora una categoria importante per la Chiesa, ma molto più come idea teologica (il popolo di Dio) che come realtà omogenea, socialmente tangibile.
Diviso ideologicamente, socialmente ed etnicamente, il cattolicesimo globalizzato deve ridefinire il suo popolo. Coloro che accusano Francesco di populismo utilizzano una concezione puramente politica del populismo. Sono ben lontane dalle loro preoccupazioni le implicazioni teologiche di ciò che «il popolo» significa per la Chiesa. Se ci chiediamo allora se il populismo sia davvero un problema nella Chiesa cattolica di oggi, la risposta è sì: ma questo non ha nulla a che vedere con le superficiali analogie tra Papa Francesco e Donald Trump.
Una delle conseguenze inaspettate del Concilio Vaticano II è stato l’avvio di una profondissima trasformazione delle élite nel cattolicesimo contemporaneo. La comprensione di questo fenomeno è un compito di enorme importanza portato avanti discretamente dall’attuale pontificato. Il Papa è ben consapevole di quanto le élite siano cambiate in questi ultimi cinquant’anni.
Basta guardare al modo in cui si rivolge a due dei protagonisti nell’arena nella quale infuria la battaglia per la leadership nella Chiesa: i vescovi e i nuovi movimenti ecclesiali. Ai vescovi, ad esempio, Francesco si rivolge in un modo che fa capire quello che pensa delle carenze dell’ecclesiologia «episcopalista» del Concilio.
Ma Francesco non sta solo privando i vescovi di ogni illusione riguardo alla loro leadership eterna nella Chiesa. Nei suoi discorsi e nelle conversazioni con i movimenti cattolici (Comunione e liberazione, Cammino neocatecumenale ecc.), il papa sottolinea invariabilmente che la Chiesa non ha bisogno di élite che rimangano isolate dal resto della comunità ecclesiale.
Ciò significa forse che è un populista? Sì, ma solo se il punto di vista dell’osservatore si basa su considerazioni politiche, come sembra essere il caso per la maggior parte degli avversari del papa.
L’accusa rivolta a Francesco di abbracciare il populismo trascura del tutto il fatto che, in quanto capo di una «Chiesa-popolo-di-Dio», populista lo è per costituzione. Essa dimostra, inoltre, che per la maggior parte dei commentatori politici e religiosi attivi nei media lo spettro delle culture politiche accettabili è oggi il piccolo spazio racchiuso tra il tradizionalismo e il conservatorismo a destra e il riformismo moderato a sinistra.
Nella nostra epoca il radicalismo è divenuto l’eresia estrema, sia nella Chiesa cattolica sia nel mondo dominato dal paradigma tecnocratico. Le istanze di giustizia sociale ed economica sono facilmente riducibili al populismo (che per alcuni è una variante del comunismo) in un mondo in cui la politica batte in ritirata, l’autoritarismo è in ripresa, e la Chiesa cattolica è una delle ultime istituzioni globali che abbia il coraggio, la gravitas e le risorse per parlare al potere con voce di verità.
In questa situazione è un paradosso che la Chiesa cattolica, peraltro da sempre timorosa di introdurre metodi democratici nella propria struttura di governo, sia uno dei più strenui sostenitori di una democrazia che non sia solo procedurale, ma che abbia una natura sociale; vale a dire, una democrazia che sia al servizio di tutto il popolo.
E questo è esattamente ciò che non piace di papa Francesco a chi lo accusa di essere un populista.
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