Le recenti dichiarazioni del premier Renzi sul Ponte di Messina destano non poche perplessità.

Contrariamente a quanto sostenuto da molti commentatori, esse però non nascono dall’opera in sé. L’obiezione che il Ponte non si debba fare perché collegherebbe Calabria e Sicilia, due regioni a forte presenza criminale, e quindi vedrebbe necessariamente una forte infiltrazione criminale negli appalti, è irricevibile. Sarebbe una resa: ammettere che il nostro Paese non è in grado di realizzare una grande opera senza che questa sia infiltrata dal malaffare; o che non è in grado di realizzarla in una parte del territorio nazionale. Una secessione di fatto: in quelle regioni lo Stato non c’è; non è in grado di contrastare la criminalità. L’altra obiezione è che il Ponte è in sé un’opera assurda. Non è così: si tratta di un’opera ingegneristica assai complessa, come se ne fanno in tante parti del mondo. Ha obiezioni specifiche, di notevole rilevanza (territorio sismico, impatto ambientale): ma di esse, come ovunque si fa nel mondo, si può ragionare in misura tecnicamente fondata per arrivare, se possibile, a superarle. Fondati argomenti a favore dell’intervento sono già stati ospitati da questa rivista.

I problemi vengono quando si parla di costi e benefici, specie se visti nel tempo. Si tratta di un’opera molto costosa, il cui onere ricadrebbe sul bilancio pubblico. La possibilità che vi possa essere un sostanziale contributo privato pare assai modesta, sia per le previsioni di cui si dispone sui flussi di traffico (e quindi sui possibili incassi del privato), sia per altre recenti vicende (come la realizzazione dell’autostrada Brescia-Bergamo-Milano) che consigliano di valutare con grandissima cautela eventuali investimenti privati, che facilmente finiscono con il ribaltarsi sulle casse pubbliche. 

Allora la domanda è: nelle attuali condizioni di finanza pubblica, e nelle attuali condizioni del capitale pubblico nelle stesse regioni coinvolte, il Ponte è l’opera prioritaria? Certo che no, come lo stesso Renzi ha poi riconosciuto: «per me viene dopo banda larga, edilizia scolastica, ferrovie e viadotti in Sicilia». Per di più, i benefici del Ponte potrebbero essere significativi assai più per il traffico ferroviario che per quello stradale: la rete su ferro siciliana potrebbe essere connessa a quella «continentale», con impatti molto positivi su tempi e qualità del trasporto. Ma i beneficio diventerebbe sostanziale solo se le attuali reti ferroviarie siciliane e calabresi, in condizioni ottocentesche e fuori da tempo dagli interessi delle Ferrovie dello Stato, fossero sostanzialmente ammodernate e velocizzate. Interventi anch’essi assai costosi, ma certamente prioritari rispetto alla realizzazione del Ponte. Il punto di fondo è che questi interventi non si fanno da decenni e non sono in programma, quantomeno nel medio termine, come il governo sa benissimo. E quindi parlare di Ponte come opera fattibile nell’immediato lascia assai perplessi, come molti hanno notato.

È evidente che Renzi ha tirato fuori l’argomento perché siamo in una campagna elettorale referendaria che, soprattutto nel Mezzogiorno, si presenta in salita per le sue posizioni. Ciò non è particolarmente gradevole (e tutto sommato in verità inaccettabile, seppure politicamente comprensibile). Quello che disturba, e molto, è che Renzi, volendo accattivarsi l’elettorato meridionale, e in particolare calabrese e siciliano, non abbia trovato un argomento migliore. Che nessuno, dei suoi tanti luogotenenti, gli abbia suggerito un tema migliore (dalla messa in sicurezza del territorio allo sviluppo dell’industria o del turismo o della ricerca). Ovvero che, come accade per la verità non solo a lui, sia prevalsa l’immagine dell’elettore meridionale come un «buon selvaggio», con il quale è meglio presentarsi facendo luccicare una collana di cocci di vetro invece che sedersi a ragionare dei suoi veri problemi e delle effettive, possibili, soluzioni.