Il cosiddetto “Green New Deal” si presenta come il primo tentativo da parte di forze politiche “tradizionali” di produrre una svolta su scala mondiale delle tendenze in materia ambientale. Possiamo parlare a buon diritto di svolta, come fu per il New Deal di Roosevelt, perché a) impegna istituzioni e forze produttive in uno sforzo integrato; b) propone una discontinuità netta con il passato fatto di politiche pro-ambiente incrementali, se non simboliche, c) esce dalla logica regolamentare o punitiva per immaginare una situazione finale positiva sia per l’ambiente che la società (“win-win”).

Il Green New Deal, che potremmo tradurre in italiano con Nuovo Patto Verde, nasce in ambienti eco-democratici degli Stati Uniti come un grande piano di investimenti e riforme legislative che mirino ad azzerare le emissioni di CO2 da fonti fossili entro il 2030. Una data molto vicina, che rende arduo se non impossibile il traguardo, ma che serve a dare il senso della drammaticità del momento. Infatti, tolti i negazionisti, gran parte dei governi e dell’opinione pubblica concorda che si debba intervenire per ridurre le fonti antropiche del cambiamento climatico. Ma le scale temporali divergono o diventano aleatorie. Porre una data così ravvicinata serve dunque a drammatizzare la scena e mostra come possa funzionare la politica: si chiama a raccolta il popolo per fronteggiare un cambiamento epocale.

L’altro elemento degno di nota è il parallelo fra svolta ambientalista e equità sociale. Per altro, un approccio contenuto anche nell’enciclica Laudato sì. Come ha scritto Giulio Calella, le mete socio-ambientali sono imponenti: “Bernie Sanders in occasione della campagna per le primarie, ha fatto sapere di prevedere per il Green New Deal un investimento complessivo di 16.300 miliardi di dollari, di cui 2.400 per le energie rinnovabili. Il resto servirebbe a finanziare i settori del trasporto, della ricerca, del lavoro e i vari comparti interessati alla decarbonizzazione. Si tratta di un obiettivo economico da finanziare con un intento radicalmente redistributivo: eliminando tutti i sussidi alle industrie dei combustibili fossili, tassando fino al 75% i super-ricchi e introducendo la tassa sulle transazioni finanziarie, riducendo del 25% la spesa militare e infine incassando le entrate fiscali generate dai 20 milioni di nuovi posti di lavoro creati dalla riconversione ecologica”.

Il Green New Deal è approdato anche in Europa. Ursula von der Leyen ha utilizzato la stessa locuzione in diversi momenti del percorso che l’ha portata alla presidenza della Commissione europea. La sua insistenza sul Green New Deal ha sorpreso gli osservatori perché la presidente proviene da un partito (Unione cristiano democratica) che rimane diviso sul cambiamento climatico. Fatta salva l’opposizione dei Paesi dell’Est, la Commissione europea sembra puntare a un pacchetto di misure consistenti: neutralità climatica entro il 2050, carbon border tax, piano contro l’inquinamento dell’aria, riduzione del 50% nell’uso dei pesticidi in agricoltura, un piano energetico condiviso con l’Africa e infine un fondo da 35 miliardi per la ristrutturazione dell’industria energetica interna alla Ue. A differenza del prospetto Sanders, quello di von der Leyen appare più vario, meno centrato sull’industria e con uno sguardo fuori Ue. Si sa infatti che i Paesi emergenti sono riluttanti ad accettare piani di abbattimento della CO2.

Manca invece tutta la parte redistributiva. Ed è su questo che si abbatte la critica di sinistra alla Ue, accusata di proporre misure troppo diluite nel tempo che lasciano le attuali disuguaglianze e forme di accumulazione inalterate. Il nodo interno sta proprio nella conciliazione fra misure ambientale e sociali. Un esempio è la carbon tax sui carburanti, che finisce per danneggiare soprattutto le fasce deboli della popolazione e le aree marginali. Vedasi le proteste dei gilet gialli in Francia. Pensando all’Italia, gli incentivi prima e le detrazioni poi, al fotovoltaico hanno favorito le classi medie, in grado di acquistare i pannelli o detrarre l’investimento da redditi consistenti. Altre misure “volontarie” come il servirsi di una Esco (Energy Service Company) per migliorare le prestazioni ambientali di caldaie e edifici, lasciando inalterata la propria bolletta energetica, hanno avuto scarso successo soprattutto fra le classi meno abbienti. Vi è da aggiungere che sulla scarsa incisività di queste misure pesa anche un retaggio culturale: la scarsa lungimiranza di imprese e famiglie.

In questo quadro anche il Decreto Legge Clima, approvato alla Camera il 10 dicembre, non sembra rappresentare un nuovo patto con gli italiani, improntato com’è a estremo gradualismo e prevedendo incentivi non molto appetibili. Un vero Green New Deal, in Italia come in Europa, dovrebbe agire su due fronti: dal lato industriale con un’elettrificazione spinta; bisogna però trovare sistemi più collaudati sia per il trasporto aereo e marittimo sia per lo stoccaggio stagionale di energia. Dal lato istituzionale si tratta di fornire a prezzi politici (come succede per l’edilizia pubblica residenziale) mezzi di trasporto elettrici e retrofit delle abitazioni alle fasce di popolazione meno capiente. È un conto salatissimo per lo stato e per la stessa Ue, sopportabile solo con un new fiscal deal. Da ciò quindi la domanda se vi sia la forza politica e il consenso per attuarlo.

Ciò non di meno si dovrà agire sulla riduzione dei consumi. Sperare come fa la sinistra americana e europea che le classi popolari possano consumare di più, semplicemente facendo consumare meno i ricchi è una pia illusione o un brutto sogno, dal quale anche la Cina presto si dovrà svegliare. In altri termini, la sola redistribuzione da imprese a lavoratori o da ricchi a poveri, come anche l’adozione di pacchetti tecnologici meno energivori, non potrà bastare a ridurre gli impatti ora insopportabili sull’ambiente delle attività umane. Oltre a un New Deal sociale (redistribuzione) e tecnologico (elettrificazione) ne servirà uno di tipo antropologico, quello che prende il nome di conversione ecologica.