Gli appassionati degli anni d’oro del cinema americano forse ricorderanno l’attore e comico Will Rogers, che fece parte anche della troupe del celeberrimo Ziegfeld Follies. Di lui si ricordano anche le sue frasi fulminanti sulla politica americana, alcune delle quali potrebbero benissimo costituire da sole brillanti e sintetici editoriali. La più celebre, e in questi giorni la più evocata, è quella che dice «non faccio parte di alcun partito politico organizzato … sono un democratico». Perfetta sintesi della battaglia politica che ha opposto Hillary Clinton e Bernie Sanders sia durante le primarie che in occasione della stesura del testo della piattaforma politica, e che con tutta probabilità si riproporrà all’interno della convention che si apre oggi a Filadelfia. Una delle materie più scottanti riguarda il tema dei superdelegati (vale a dire senatori e rappresentanti democratici in Congresso, governatori nonché esponenti politici nominati dal comitato nazionale del partito) i quali, introdotti non casualmente dopo le elezioni del 1972 conclusesi con la sconfitta del liberal George McGovern, hanno fatto il loro dovere, cioè arginare le istanze troppo di sinistra.
Oggi, però, e soprattutto dopo l’annuncio di Hillary di farsi affiancare come candidato alla vicepresidenza dal moderato Tim Kaine, i superdelegati finiscono per diventare un ostacolo rispetto alla necessità di dare rappresentanza e voce ai seguaci di Sanders. Will Rogers avrebbe detto: «i democratici non si trovano mai d’accordo su nulla, è per questo che sono democratici. Se andassero d’accordo, sarebbero repubblicani». Ma Rogers avrebbe avuto qualcosa da dire anche a proposito di ciò che è appena avvenuto a Cleveland, con l’incoronazione (letteralmente) di Donald Trump a candidato repubblicano per la presidenza. Nel 1923, nel pieno degli anni ruggenti, osservava: «non so a chi sia venuta l’idea che il presidente debba essere un politico invece che un uomo d’affari. Un politico non è in grado di portare avanti nessun altro tipo di affari. Non vedo nessuna ragione perché debba governare gli Stati Uniti, l’impresa più grande del mondo». Deve averla pensata così anche Donald Trump, il «miliardario blue-collar» come è stato definito, colui che vuole essere la voce della nazione («I am your voice», ha affermato nel discorso di accettazione a Cleveland), la voce dei «forgotten men and women» d’America.
Più che dare loro voce, Trump ha amplificato le paure, le ansie, l’eterno sentimento cospirazionista di una parte dell’America profonda che si sente, come nel selvaggio West, circondata da minacce e da soggetti pericolosi. Eppure, per chi sa un po’ di storia americana, l’espressione non può non richiamare alla mente il discorso sull’uomo dimenticato che Franklin Delano Roosevelt pronunciò durante la campagna elettorale del 1932, quando equiparò la crisi economica a una guerra. Il discorso di Roosevelt, tuttavia, voleva essere un appello alla mobilitazione, incoraggiare coloro che si sentivano delusi o frustrati, era un modo per ricompattare tutta la comunità non contro qualcuno, ma per rivitalizzare le energie profonde di una nazione che, come dirà nel marzo 1933, non doveva considerarsi fallita (e il pensiero correva a Weimar). «Let us mobilize to meet it» fu la frase conclusiva di Roosevelt, e in quel «let us» si concentra tutta la differenza fra la visione democratica di Roosevelt e l’autoritarismo, tutt’altro che latente, di Trump. Con Roosevelt, il partito democratico si avviava a diventare il perno di un completo ripensamento del rapporto tra economia-politica-società. Con Trump, il partito repubblicano appare sempre più frammentato e debole, incapace di essere strumento plurale di coesione sociale, tanto da far sorgere l’interrogativo se non sia arrivato all’anno zero.
Uno dei più influenti scienziati politici statunitensi, John Aldrich, nel suo presidential address rivolto lo scorso anno alla American Political Science Association, ha sostenuto che il fenomeno della polarizzazione politica, che tanto fa discutere commentatori e analisti politici, non è un fatto nuovo. Se si presta attenzione, anzi, alla conflittuale storia politica statunitense, appare evidente che il carattere «disfunzionale» della politica americana si era palesato fin dall’epoca dei padri fondatori, per il combinato disposto di separazione dei poteri, checks and balances e presenza di fazioni politiche organizzate. Vi è stato sì un momento in cui le differenze tra i due partiti sono state meno radicali e questo ha riguardato il periodo fra il 1936 e gli anni Settanta; un’eccezione, a questo punto, più che il segno della «diversità» del sistema americano rispetto a quello europeo, come spesso è stato suggerito. Aldrich, però, mette in evidenza una tendenza più recente, vale a dire la crescente «estremizzazione» che ha riguardato proprio il partito repubblicano. Nelle ultime elezioni, i nuovi membri repubblicani in Congresso si sono collocati, con l’eccezione del 2011-2012, sempre più a destra. Al contrario, nel partito democratico i nuovi eletti si collocano al centro, più che decisamente a sinistra. Le immagini, le facce, gli slogan truculenti che si sono sentiti pronunciare dentro e fuori la convention repubblicana sembrano confermare questa analisi, in modi a volte fin troppo grotteschi – dalla foto della bionda esponente repubblicana che sembra mimare il saluto nazista, alla rappresentazione ad opera di Chris Christie del processo alla «strega Hillary». Una convention in cui, per la prima volta dal 1964, la percentuale dei delegati afro-americani è scesa al di sotto dell’1% (solo 18 delegati afroamericani su 2.472!). Insomma, qualcosa che è stato a metà fra i nazisti dell’Illinois del film cult The Blues Brothers e la famiglia armata fino ai denti che al posto dei carillon sopra la culla aveva le bombe a mano, di un altro film culto, La seconda guerra civile americana di Joe Dante.
Aspetti truculenti che non si sono attenuati neppure con la rappresentazione della (quasi) perfetta famiglia americana messa in scena da Donald, a metà fra Dynasty e pubblicità della Barbie anni Cinquanta. La scelta di Mike Pence a candidato alla vicepresidenza, da questo punto di vista, non aiuta ad attenuare le istanze più estreme anche se qualche commentatore lo ha visto come un politico in grado di calmare i «Republican nerves». Pence, governatore dell’Indiana, supplisce con il suo curriculum all’inesperienza di Trump. Si tratta, però, non dimentichiamolo, dello Stato che aveva approvato lo scorso anno il Religious Freedom Restoration Act, poi rivisto dopo il boicottaggio dei tycoon high tech perché ritenuto discriminatorio dei diritti Lgbt, e che ha tuttora in discussione una delle leggi più punitive in tema di aborto. Pence in passato si era opposto alla legge di Bush, No Child Left Behind, per migliorare l’istruzione dei bambini più poveri, all’allargamento dei benefici del Medicare, e al bailout, anche se non ha disdegnato l’utilizzo di fondi federali a favore dei farmers del suo Stato. D’altronde, come lui stesso ha ribadito, è prima di tutto un cristiano (un born again cattolico evangelico), un conservatore e solo dopo un repubblicano. Una scelta che vuole arginare il malpancismo dei conservatori e della destra religiosa, ma che certo non aiuta a intravedere un percorso diverso all’interno di un partito repubblicano che, nonostante la retorica sulla nazione e sull’American first, appare confinato entro spazi – politici, sociali, etnico-razziali – sempre più angusti. E che tuttavia, può avere qualche chance, visto che i sondaggi parlano di un margine a favore del partito democratico solo del 5%, e della Clinton come della candidata con la più alta percentuale di opinioni sfavorevoli (54%, mentre il 44% è fortemente a sfavore). Come direbbe Will Rogers: «c’è una sola cosa che ci salva da quest’elezione, sapere che al tramonto è tutto finito. Preghiamo tutti assieme affinché non ci sia un pareggio perché non possiamo affrontare tutto questo un’altra volta».
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