«Poco più a sinistra del centro» – per riprendere il commento della prima donna ministro, Frances Perkins, a proposito delle posizioni di Franklin D. Roosevelt – è quello che si potrebbe affermare per descrivere l’agenda politica di Hillary Clinton dopo la sua performance nel primo dei sei dibattiti televisivi previsti tra i contendenti alla nomination democratica.
Ritenuta dalla maggior parte dei media americani, la candidata vincitrice del confronto con il suo avversario più temuto, il «socialista del Vermont« Bernie Sanders, e altri tre candidati, poco più che comparse (gli ex governatori del Maryland e del Rhode Island, Martin O’Malley e Lincoln Chafee e l’ex senatore della Virginia Jim Webb), Hillary Clinton sembra essersi lasciata alle spalle un’estate difficile. Un’estate segnata dalle polemiche che hanno riguardato le voci di finanziamento illecito della Clinton Foundation, le sue responsabilità politiche nell’attentato di Bengasi – che procurò la morte, fra gli altri, dell’ambasciatore americano – e, infine, le polemiche – alimentate da un partito repubblicano che non chiede altro se non un nuovo «Clintongate» – per aver utilizzato, come segretario di Stato, un server privato per gestire la posta. L’accusa è quella di aver consegnato il suo archivio ai National Archives, come prevede la legge, distruggendo posta «personale» che, probabilmente, troppo personale non era.
Non che si preveda una corsa tutta in discesa. E questo nonostante dopo il dibattito i sondaggi sulle prime elezioni primarie che si svolgeranno nel prossimo febbraio in Iowa e nel New Hampshire la vedano leggermente in vantaggio rispetto a Sanders. Rimane, Innanzitutto, l’incognita della discesa in campo del vicepresidente Joe Biden. Molto più di Hillary, Biden sembra in grado di mobilitare i voti della working class sindacalizzata che, attorno al tema del minimum wage, sta ottenendo consenso e spingendo sindaci e governatori democratici a presentare progetti per innalzare il minimo salariale. E proprio per questo è particolarmente temuto. Resta poi l’incognita della commissione di indagine del Congresso, dominata da un partito repubblicano diviso e in piena guerra interna (come dimostrano le dimissioni dello Speaker moderato John Boehner per le pressioni del Tea party e la conseguente difficoltà di trovare un accordo sul suo sostituto), che proprio grazie al «bersaglio» Hillary potrebbe trovare un elemento di coesione e di forza.
A fronte di questo scenario complicato, che tipo di strategia sta portando avanti la candidata presidente Hillary Clinton? E soprattutto, che tipo di progetto politico sta delineando per segnare la sua distanza da Barack Obama? In che modo pensa di trovare una via d’uscita per un partito democratico, ancora competitivo per quel che riguarda le elezioni presidenziali, ma in chiara difficoltà in quelle congressuali e in molte elezioni nei singoli Stati a causa della revisione dei collegi elettorali voluta in molti Stati dalle maggioranze repubblicane? La risposta è, appunto, «poco più a sinistra del centro». Non sono più i tempi della «triangulation» (non lasciarsi ingabbiare dalla dicotomia destra-sinistra, ma riposizionarsi a seconda delle istanze e dei sondaggi d’opinione), amata dal marito Bill (e che tanti ammiratori continua ad avere anche in Italia). Hillary, che secondo alcuni commentatori era più a sinistra del marito già negli anni Novanta, deve fare i conti con una base militante del partito che, galvanizzata dal «change» obamiano e poi delusa, fatica a trovare una ragione di entusiasmo.
La crisi economica, il declino della classe media, il divario crescente nelle disuguaglianze che hanno appannato il mito dell’American Dream, la necessità di rivitalizzare il capitale sociale attraverso nuovi investimenti nell’istruzione, impongono una piattaforma più «sociale» (istruzione, New Deal per le comunità di colore, parità salariale e aumento dei minimi salariali, opposizione al Trans-Pacific Partnership Trade, politiche a favore delle donne, freno alla diffusione delle armi), ma senza i rischi di una decisa sterzata a sinistra. Come invece Sanders vorrebbe: “io sono una progressista, ma una progressista che vuole che le cose si realizzino”, ha affermato durante il dibattito televisivo. Hillary potrebbe convenire con il «Washington Post», secondo il quale il populismo fa raccogliere voti, ma è il pragmatismo che ottiene risultati. E tuttavia, un’agenda politica che avrebbe come obiettivo una «prosperità inclusiva», in grado di coniugare alti salari, misure antidiscriminatorie e capacità di vincere la sfida globale – secondo quanto delineato da quel Center for American Progress, fondato da John Podesta, attuale manager della campagna elettorale di Hillary – ha bisogno di una leadership di tipo “trasformativo”, che la candidata non sembra in grado di interpretare. Anche la carta del genere, la più innovativa tra quelle che può giocare, («penso che essere la prima donna presidente sia già un cambiamento rispetto ai presidenti che si sono succeduti fino ad ora, incluso Obama», ha affermato durante il dibattito), viene utilizzata usando toni moderati e rassicuranti.
Hillary Clinton sembra aver imparato la lezione rispetto al 2008, quando si presentò con l’identità neutra del politico esperto. Tuttavia, in un contesto in cui il sessismo è ritornato a segnare il dibattito pubblico e politico (non soltanto grazie a Donald Trump), propone un’immagine rassicurante della donna non più giovane, che non mette in discussione la preminenza sociale della funzione materna e anzi, proprio perché questa è stata assolta, si può dedicare legittimamente a servire il Paese. Usando a proprio vantaggio l’argomento dell’età, Hillary ha rivendicato l’identità della «nonna», dando nuovo significato a quell’attributo dell’esperienza che in passato si era rivelato un boomerang, in quanto identificato con il potere washingtoniano. Una strategia che, fondata su solide richieste come la necessità di promuovere l’occupazione femminile, il congedo parentale retribuito, la parità salariale, dovrebbe garantirgli il consenso dell’elettorato femminile.
La capacità di proporsi come simbolo del cambiamento, di una nuova narrazione e di un immaginario in cui identificarsi, però, le manca, esattamente a partire dall’identità di genere, carta giocata come novità che sta nelle cose, piuttosto che come rivoluzione di carattere epocale per gli aspetti simbolici e politici che comporta. Ed è proprio questa, forse, la sua debolezza maggiore.
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