La morte violenta di una ragazza in un cantiere abbandonato nel cuore di Roma occupa le prime pagine dei giornali da giovedì scorso. Desirée Mariottini aveva sedici anni. Come accade sempre in questi casi, le ore immediatamente successive al rinvenimento del corpo sono state dedicate dai media a indagare sulla famiglia, sui rapporti di amicizia, sulle frequentazioni. Un’intera pagina in cui si ricostruiva la breve vita di questa ragazza si trovava, ad esempio, giovedì sul “Corriere della Sera”. Ma immagino che non siano mancati, e non mancheranno, gli “approfondimenti” televisivi. Così è stato a gennaio per Pamela Mastropietro, la diciottenne uccisa a Macerata, così sarà per Desirée, da subito per tutti “Desy”. Le interviste ai vicini, il pressing sui parenti più stretti – la madre, la nonna, il padre – per convincerli a raccontare in diretta il proprio dolore, l’immancabile zoomata sul citofono di casa.
Eppure, di Desireé, di Pamela e di tutte le giovanissime e i giovanissimi che si trascinano stancamente di giorno in giorno, quasi sempre incapaci di risollevarsi o di trovare una motivazione, anche minima, noi non sappiamo niente. Soprattutto perché non vogliamo sapere, convinti che una certa dose di disperati ci sia sempre stata, e sempre ci sarà. Per qualche giorno o settimana ci lasciamo prendere da un po’ di commozione e di stupore. (Come anche a me è successo leggendo il racconto terribile pubblicato su “Repubblica” da Brunella Giovara della vita condotta da ragazze e ragazzi, a volte neppure maggiorenni, alle porte della “grande” Milano, alla ricerca di qualche euro per procurarsi le dosi: a Rogoredo, in un bosco di cinque ettari dove trovi qualunque sostanza.) Quasi sempre ci lasciamo convincere che al fondo di tutto ci sia un problema di sicurezza e di degrado, le due parole su cui la peggiore politica ha costruito un’impalcatura di menzogne dietro alla quale ci nascondiamo tutti, anche quando quella politica e quei politici schifiamo.
Sempre giovedì, sempre sul “Corriere” che ospitava analisi e commenti sul caso di Desirée, è uscita a tutta pagina un’intervista al ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca Bussetti. Il capo della scuola italiana – quella scuola che con Desirée, Pamela e tanti altri ha miseramente fallito – ha sostenuto due cose, molto importanti e molto sbagliate. La prima è che la scuola italiana può fare a meno di nuovi fondi. «Non è detto che per migliorare servano più finanziamenti: la scuola deve diventare efficiente con quello che ha. Come diceva mia nonna: ci si scalda con la legna che si ha». La seconda è che la proposta arrivata dai presidenti delle regioni Lombardia e Veneto di procacciarsi da sé gli insegnanti, spostando quindi di fatto anche l’istruzione sotto il cappello dell’autonomia, sarebbe «un’idea virtuosa». Veneto e Lombardia, infatti, hanno presentato la nuova bozza di intesa per l’autonomia differenziata e chiedono di poter “regionalizzare” professori e presidi, che diventerebbero dipendenti della regione e non più dello Stato. Il ministro giudica la proposta “virtuosa”, forse ignorando i dati sui divari regionali in materia di istruzione. O forse non ignorandoli affatto, ma considerandoli, anche in questo caso, responsabilità politica e finanche antropologica delle regioni, appunto, poco “virtuose”. Dopo la sanità, anche l’istruzione sotto il cappello dell’autonomia delle regioni. La questione della maggiore autonomia che può essere concessa alle regioni a statuto ordinario (presentata e discussa sul “Mulino” da Marco Cammelli e da Gianfranco Viesti) appare dirompente per le sue possibili conseguenze. Chi la sostiene a spada tratta, a cominciare dalla ministra degli Affari regionali e delle Autonomie Erika Stefani, forse non è in grado di prevedere i possibili effetti di allargamento dei divari esistenti da regione a regione.
Si prendano, ad esempio, i dati sugli abbandoni scolastici. Il fenomeno dell’abbandono precoce riguarda chi lascia gli studi avendo ottenuto solo la licenza media. Molto spesso, i ragazzi e le ragazze che interrompono gli studi provengono da contesti difficili e da situazioni familiari di grande precarietà, economica e affettiva. I dati disponibili ci mostrano una situazione molto differenziata, che colpisce non solo le regioni meridionali. La regione con più abbandoni è la Sardegna, con una media superiore al 20%. In Sicilia, nelle province di Caltanissetta e Catania più di un giovane su quattro si ferma alla terza media, ma anche altrove le cose vanno molto male. In Campania (dato medio della regione 19%), Napoli ha abbandoni scolastici al 22%. La Lombardia e il Lazio oscillano tra l’11 e il 12%.
Osservare questi dati (ma un esercizio analogo si potrebbe fare, ad esempio, sull’efficienza dei diversi sistemi sanitari regionali) e incrociarli con le informazioni disponibili sul crescente disagio giovanile con il quale devono confrontarsi sempre più i servizi socio-sanitari (non solo i Sert) dovrebbe condurci almeno a una semplice considerazione. La sicurezza e il degrado non si combattono eliminando le panchine dai parchi e dalle stazioni ma aumentando gli investimenti sui servizi essenziali, a cominciare dalla scuola e dalle aree più disagiate (chiamiamole pure periferie, se vogliamo). Una ragazza che a sedici anni continua a frequentare la scuola, magari tra molte difficoltà, continua comunque a frequentare anche i suoi pari, ad avere relazioni. Riduce di molto, certo non lo annulla, il rischio di allontanamento e di progressiva emarginazione.
Provare a capire, guardare i dati, insomma osservare la realtà è compito prima di tutto di chi deve decidere quali politiche pubbliche attuare, come utilizzare le risorse disponibili. In questo momento più che mai servono investimenti. Non solo per mettere in sicurezza le nostre infrastrutture, ma per ridurre in ogni modo possibile il rischio di ritrovarci poco alla volta con un numero sempre maggiore di intere aree delle nostre città fuori controllo.
La trascuratezza con cui buona parte della politica italiana si è occupata delle classi più giovani è evidente anche nella carenza di luoghi di aggregazione, ai più diversi livelli e con le consuete, grandi differenze da regione a regione. Poco ostile a nuovi (più o meno grandi, a volte enormi) centri commerciali. Poco attenta alla contemporanea riduzione di spazi aggregativi, dai centri sociali, alle biblioteche, ai centri sportivi. Dimenticando come in molti casi l’unico argine all’emarginazione sociale siano proprio questi spazi di quartiere. Quelli che poco alla volta spariscono a causa del disinteresse degli amministratori, più disponibili nei confronti dei processi di gentrificazione e, spesso, degli sgomberi.
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