L’ora di Hillary. Quattro decenni dopo i tentativi (falliti) di Margaret Chase Smith tra repubblicani nel 1964 e di Shirley Chisholm nel 1972 tra i democratici, Hillary Clinton supera lo scoglio che l’aveva fermata otto anni fa nelle primarie perse contro Barack Obama e diventa la prima donna candidata alla Casa Bianca. Una nomination celebrata dal partito democratico nel corso di un appuntamento assai differente da quello che, pochi giorni prima, aveva contrassegnato l’ascesa di Donald Trump. A Philadelphia va in scena infatti un grande rito unitario, dove a far notizia sono più le presenze confermate che per le assenze di rilievo: Cory Booker, Andrew Cuomo, Bill DeBlasio, Michael Bloomberg, Gabby Giffords, Elizabeth Warren, Chuck Schumer, accanto a una lunga lista di figure di rilievo della società civile e star del mondo dello spettacolo. A Cleveland erano assenti, oltre agli ultimi due presidenti del partito repubblicano, anche gli ultimi due candidati presidenziali sconfitti da Obama e i principali avversari di Donald Trump. A Philadelphia, invece, è chiamato a parlare davanti ai 4.769 delegati, ogni giorno almeno uno tra inquilini ed ex inquilini della Casa Bianca. Anche l’ex presidente Jimmy Carter, impossibilitato a presenziare per i recenti problemi di salute, ha mandato un video messaggio di sostegno a Hillary Clinton, congratulandosi al contempo con il suo rivale alle primarie Bernie Sanders per aver riacceso l’entusiasmo dei più giovani nella sua accesa campagna elettorale.
Il grande filo conduttore della kermesse sembra proprio quello dell’unità, a partire dal nome scelto per la giornata inaugurale, United Together. Together è la parola chiave per un futuro in cui le famiglie americane contribuiscano insieme alla crescita del Paese, senza distinzioni di reddito. Al tempo stesso Together diventa il messaggio fondamentale di un partito che deve ricomporre subito le fratture tra establishment e la base elettorale più giovane e progressista del partito, emerse nelle ultime primarie. Sanders, come previsto, non segue l’esempio del suo omologo repubblicano Ted Cruz e, tra le proteste e i fischi dei suoi sostenitori più radicali, invita il partito all’unità mettendo in luce le credenziali più progressiste della storia di Hillary Clinton, in tema di sanità e ambiente, che potranno contribuire a quella «rivoluzione», posta al centro della narrazione del senatore del Vermont nella sua corsa alle primarie.
Anche l’attuale first lady Michelle Obama, oltre a sottolineare più volte l’affidabilità di un candidato dall’esperienza politica di Hillary Clinton e la sua correttezza dopo la sconfitta alle primarie del 2008, rievoca spesso il tema dell’unità del Paese, alternando momenti dal respiro familiare a una visione di più ampio respiro sulla missione dei democratici, in un discorso molto apprezzato da commentatori e analisti.
Martedì, tra i principali ospiti spiccano le Mothers of the Movement, le madri di Eric Garner, Trayvon Martin, Michael Brown e di altri giovani uccisi dalle forze dell’ordine che hanno alimentato il movimento Black Lives Matter. Ma il vero protagonista della convention, nella giornata dedicata al tema A Lifetime of Fighting for Children and Families, è però un ex presidente, il primo a correre da first gentleman. Bill Clinton, oratore di esperienza ormai consolidata, riesce a centrare l’obiettivo di umanizzare la figura di Hillary Clinton con un racconto della loro lunga relazione a partire dai banchi della Law School di Yale all’inizio degli anni Settanta definendola la «candidata più qualificata di sempre», ma anche «una mamma e una nonna che farebbe di tutto per far crescere nel migliore dei modi i più piccoli».
Anche la terza giornata di mercoledì, dal tema Working Together, ha un programma molto denso a partire dal presidente che propone alla platea un discorso dalle tinte molto ottimistiche e dai richiami quasi eccezionalisti, in opposizione alla visione distopica assai ricorrente negli interventi dei protagonisti della convention repubblicana e nel duro acceptance speech di Donald Trump. Obama consacra la sua ex rivale del 2008 come sua «erede politica» e attacca duramente il candidato repubblicano, accostando la sua demagogia alle minacce alla sicurezza degli Stati Uniti, un tempo identificabili con il nemico comunista e oggi impersonificate dalla minaccia globale jihadista. Il discorso di Obama è preceduto da quello di Joe Biden, al quale è riservato il compito di attaccare in maniera ancora più diretta Donald Trump con la tipica dialettica, molto vivace e spesso poco ortodossa, del vicepresidente, con un altro dei temi di riferimento del background politico, la difesa della classe media: la sua frase Donald Trump doesn’t have a clue about the middle class ispira subito un coro Not A Clue che accende gli animi dei presenti. I due interventi finiscono per oscurare inevitabilmente quello di Tim Kaine, il cinquantottenne ex governatore e attuale senatore della Virginia scelto da Clinton per il ticket presidenziale che sfiderà il ticket Trump-Pence. Cattolico, nato in Minnesota ma cresciuto in Missouri, a Kansas City, educato dai gesuiti da cui ha fatto suo il motto Men For Others, poi avvocato al fianco dei più deboli e degli emarginati, Kaine articola un discorso in tre parti, che parte dalla sua storia di giovane attivista col pallino della giustizia sociale ai meriti dell’amministrazione Clinton nell’ambito delle politiche sociali, per terminare con una serie di accuse molto severe sul passato di Donald Trump e sulle sue promesse elettorali.
Il tema della giornata conclusiva – in cui come da tradizione il candidato accetta ufficialmente la nomination dei delegati del partito – è Stronger Together e anticipa il focus del messaggio alla nazione di Hillary Clinton, che cerca di contrapporsi alla narrazione negativa dei repubblicani con lo scopo di coinvolgere nel suo blocco elettorale non solo gli indipendenti, ma soprattutto i repubblicani moderati lontani dall’immaginario di Trump. Hillary Clinton che interviene dopo la figlia Chelsea, parla senza mezzi termini di «giorno del giudizio» per descrivere l’importanza del voto di novembre con un richiamo patriottico, anche in questo caso dai tratti eccezionalisti, alla missione degli Stati Uniti, unica realtà in grado di unire tutte le razze e tutte le religioni per la difesa della propria comunità di cittadini dalle minacce del terrorismo, delle violenze interne e dell’instabilità economica. Non è, come nel messaggio di Trump, il presidente ad aggiustare le cose, ma tutti gli americani «insieme»: We’ll fix it together. Non mancano gli attachi al suo sfidante, ma il suo discorso suona già quasi come un discorso sullo stato dell’Unione.
Negli ultimi sondaggi Donald Trump ha recuperato terreno sfruttando il tradizionale bounce che, nei giorni che seguono la nomination, fa conquistare qualche punto percentuale al candidato. Al momento sia lui che Hillary Clinton, secondo Gallup, sembrano avere lo stesso livello di «impopolarità», godendo entrambi della fiducia di appena il 70% degli elettori interni al partito. Nel 2008, a questo punto della campagna, Barack Obama godeva di una fiducia interna dell’84%, John McCain sfiorava il 90%. Se si estende il sondaggio all’intero corpo elettorale, la fiducia si dimezza: per Real Clear Politics e Gallup, entrambi non superano il 38%.
Con la sfiducia di almeno due terzi degli elettori, al momento, Donald Trump e Hillary Clinton, secondo la media degli ultimi sondaggi, si presentano all’inizio della volata finale verso la sfida di novembre con le stesse possibilità di vittoria.
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