L’agguato di Pesaro, la notte di Natale, pesa come un macigno. E non solo tra gli addetti ai lavori, tra coloro che sanno bene che effetto dirompente abbia l’assassinio di una persona sotto protezione. Ovviamente è la gente della tranquilla città marchigiana ad essere rimasta attonita per la freddezza e la ferocia di un’esecuzione in pieno centro di una persona apparentemente qualunque. Difficile stabilire che cosa sia successo, ci vorrà tempo; anche se l’ipotesi più verosimile resta quella di una vendetta decretata da un vecchio boss della ‘ndrangheta contro il fratello di un importante collaboratore di giustizia che gli aveva, prima, sparato al capo e, poi, si era subito costituito ai Carabinieri decidendo di raccontare i misfatti del clan. In attesa di vedere cosa gli inquirenti potranno accertare alcune rapide considerazioni sono pur possibili.
Innanzitutto pare scontata, ai limiti della banalità, la tesi di chi sostiene che qualcosa non avrebbe funzionato a Pesaro. È del tutto evidente che qualcosa non ha funzionato e non solo a Pesaro. Il problema è stabilire cosa sia andato storto. La ragione Marche, e non è un segreto, è stata da sempre terra d’elezione per la collocazione dei pentiti e dei loro familiari. Un luogo tranquillo, esente da infiltrazioni mafiose significative. Un luogo in cui per decenni le persone protette sono state al riparo da vendette e agguati. Difficile censurare, così, la scelta del Servizio centrale di protezione (il braccio operativo del sistema di tutela presso il ministero dell’Interno) di collocare il povero Bruzzese e la sua famiglia a Pesaro. Sicuramente vi erano bambini in quella famiglia che, strappati dall’originario contesto calabrese, certo meritavano di essere inseriti in una piccola e tranquilla città in cui dipanare e ritessere le fila aggrovigliate della propria esistenza. Quindi non è stato certo un errore scegliere Pesaro. Tra l’altro le dimensioni di quel territorio, in teoria, agevolavano la sorveglianza delle forze di polizia che potevano più facilmente individuare persone sospette o movimenti anomali.
Secondariamente si apprende che la vittima adoperava quotidianamente il proprio cognome, apposto finanche sulla porta di casa. Un’abitazione rintracciata e presa in affitto dal Servizio centrale e poi concessa in uso al Bruzzese e alla sua famiglia. Un comportamento imprudente, si è detto, quello del Bruzzese. Una grave mancanza delle regole di protezione, si è subito sussurrato. Forse. Tuttavia si devono fare alcune precisazioni. In quell’appartamento, abbiamo detto, viveva una famiglia apparentemente come tante altre. Bambini, compagni di scuola, le bollette, i pacchi di Amazon, insomma una vita come tante altre. E qui le cose si complicano. Il vero punto è che la legge pone numerose complicazioni e innumerevoli adempimenti per cambiare definitivamente le generalità delle persone protette. Un percorso lungo, accidentato e, talvolta, anche contrastato. Creare dal nulla nomi e cognomi cui corrispondano certificati di nascita, di residenza, elettorali, carichi pendenti, casellario, tessere sanitarie, codice fiscale e tutto il resto non è facile e il pachiderma burocratico che affligge il nostro Paese non agevola il compito di quel prezioso pezzo di Stato. Bruzzese, a questo punto sicuramente, non aveva avuto alcun cambio di generalità, forse non lo aveva chiesto o forse lo aveva persino rifiutato, fiero di quelle origini calabresi. Comunque è evidente che anche il Servizio centrale di protezione sapeva che il Bruzzese e la sua famiglia utilizzavano il cognome originario di Calabria e probabilmente aveva considerato esente da rischi quella (ora) chiara imprudenza.
In terzo luogo è verosimile che qualcuno, nella mai troppo lontana provincia di Reggio Calabria, abbia saputo del sito protetto, di quella casa così tranquilla in quella strada così tranquilla e abbia confezionato l’agguato. La sera di Natale l’uomo è stato giustiziato, si pensa, per fare un macabro regalo a chi voleva vendicarsi del “tradimento” del fratello di Bruzzese e della stessa vittima che – accettando la protezione dello Stato – aveva per ciò solo voltato le spalle al clan, fatto una chiara scelta di campo per sé e per i propri cari.
Da questo punto di vista l’omicidio è un disastro. Migliaia e migliaia di persone sono transitate in tanti anni per il Servizio centrale di protezione e pochissime volte è successo qualcosa di così grave. Forse le dita di una mano sono pure troppe per censire casi simili a quello di Pesaro. Ecco perché la morte di Bruzzese la sera di Natale pesa come un macigno, perché mostra che il sistema è vulnerabile e in tanti non si sentiranno più al sicuro; quel cadavere sarà ostentato dai boss, da tutti i boss, per dire che la ‘ndrangheta non dimentica, che 15 anni dopo l’inizio di quella collaborazione arriva inesorabile il momento della vendetta. Non è facile trovare soluzioni. La stabilizzazione delle famiglie dei pentiti è un obiettivo necessario e imprescindibile dell’intero sistema di protezione che punta, così, al reinserimento sociale di persone che hanno vissuto tanto tempo in contesti di degrado mafioso. Non è pensabile che i collaboratori e i loro cari possano andare periodicamente in transumanza sradicati da una città all’altra e la lezione di Pesaro si staglia in modo chiaro: occorre favorire e agevolare il cambio definitivo delle generalità, accettando il rischio di “bruciarle” per, poi, cambiarle ancora se necessario. Non sarebbe risolutivo è vero. Una leggerezza, una confidenza sbagliata, un parente vicino ai boss disposto a tradire sono sempre possibili, ma non si può accettare un agguato sotto casa, sulla soglia di un appartamento pagato dallo Stato a centinaia di chilometri dal luogo della paura e della minaccia. Il decreto sicurezza appena approvato dal Parlamento è intervenuto per l’ennesima volta sull’organizzazione del Servizio centrale di protezione cercando di migliorarla, soprattutto in favore dei testimoni di giustizia. Una struttura che è presa a modello da tanti Paesi e che non ha nulla da invidiare all’omologo ufficio statunitense o canadese e che l'ulteriore semplificazione delle procedure di inserimento delle persone protette aiuterebbe a mettere a regime.
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