Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
Che cos'hanno in comune la decisione della Cardiff philarmonic orchestra di rimuovere dal suo programma l’esecuzione della Ouverture 1812 di Čajkovskij, quella della cineteca dell’Andalusia di annullare la proiezione di Solaris di Tarkovskij, nonché la scelta, poi rivista, dell’Università Bicocca di Milano di cancellare il corso di letteratura su Dostoevskij? Da un lato, vi è il disorientamento delle istituzioni, anche culturali e occidentali, rispetto all’invasione russa dell’Ucraina; dall’altro, è riscontrabile il tentativo di reagire al nuovo contesto bellico, allineando goffamente il mondo dell’arte e della cultura alle condivisibili politiche sanzionatorie imposte in ambito commerciale e finanziario.
Potrebbe avere senso ragionare sull’utilità di congelare i rapporti fra gli enti culturali dei due Paesi, quando sono coinvolti, da parte russa, soggetti vicini al governo di Mosca. Tuttavia, appare per diverse ragioni opinabile – se non controproducente – il boicottaggio del secolare patrimonio culturale e artistico proveniente da quel mondo. Innanzitutto, perché tale atteggiamento non fa che sostenere la propaganda governativa del Cremlino che ha posto fra le basi del conflitto la supposta aggressività – non solo militare, ma anche culturale – dell’"Occidente". Inoltre, perché anziché fare un danno alla Russia, o aiutare l’Ucraina, si impoverisce la stessa cultura occidentale (in particolare quella delle giovani generazioni), privandola della conoscenza di realizzazioni che hanno sempre costituito una finestra e un ponte di dialogo su e con quel mondo. Un avvicinamento che è stato spesso cooperazione e che permette di parlare della cultura e dell’arte russa (e ancora più quella multinazionale sovietica) come parte di un tessuto storico di produzione, circolazione e ricezione culturale che fa pienamente parte della civiltà europea e mondiale.
Il campo del cinema è esemplare per comprendere il carattere poroso dei rapporti fra la Russia e l’Occidente, anche quando le differenze politico-ideologiche e socio-economiche dei sistemi sembravano impedirli
Il campo del cinema è esemplare per comprendere il carattere poroso dei rapporti fra la Russia (nonché la multietnica e multinazionale Urss) e l’Occidente, anche quando le differenze politico-ideologiche e socio-economiche dei sistemi sembravano impedirli. Alcuni esempi sparsi spiegano quest’idea di costante culturale – nello specifico cinematografica – fra le due parti. Il celeberrimo La corazzata Potëmkin (Sergej Ejzenštejn, 1925), capolavoro riconosciuto della cinematografia mondiale, ebbe inizialmente successo a Berlino e solo in seguito si affermò in Urss, per essere poi eletto miglior film di tutti i tempi in occasione dell’Esposizione universale di Bruxelles del 1958 (fra i primi dieci comparivano, peraltro, anche La madre di Vsevolod Pudovkin del 1926 e La terra dell’ucraino-sovietico Aleksandr Dovženko del 1930).
Sempre negli anni Venti diversi film sovietici, soprattutto d’intrattenimento, circolarono nella Germania di Weimar, in Francia e addirittura nell’Italia fascista. Il rapporto con il nostro Paese fu davvero peculiare. Alla metà degli anni Trenta, nel neonato Centro sperimentale di cinematografia, le opere dell’avanguardia cinematografica sovietica erano fra i film oggetto delle lezioni, senza che ciò sollevasse obiezioni da parte dei vertici fascisti delle istituzioni culturali e professionali. Tra la fine degli anni Venti e la metà del decennio successivo diversi corrispondenti sovietici inviarono informazioni e articoli alla rivista (pubblicata in quattro lingue) dell’Istituto internazionale per il cinema educativo, ente della Società delle nazioni benché gestito a Roma. Ciò accadeva mentre una delegazione sovietica visitava Hollywood per comprendere l’organizzazione della più prolifica industria del settore al mondo. Il film-manifesto del realismo socialista – Čapaev dei Vasil’ev (1934) – sembra essere stato uno dei film più visti dai repubblicani durante la guerra civile spagnola. Nel secondo conflitto mondiale, mentre Hollywood realizzava pellicole volte a trasformare l’immagine del nemico comunista in alleato affidabile, il film di guerra Arcobaleno (Mark Donskoj, 1943) veniva celebrato dal presidente Roosevelt come opera talmente potente da non aver bisogno di doppiaggio.
È vero che negli anni più duri della Guerra fredda, fino alla morte di Stalin nel 1953, ci furono molti ostacoli alla circolazione dei film sovietici oltrecortina (Italia compresa) e che, a dire il vero, gran parte della produzione di quegli anni in realtà non piaceva nemmeno a operai e comunisti. Ma, intanto, almeno si erano potuti fare un’idea più concreta di quel cinema, spesso grazie al ruolo delle associazioni di amicizia come “Italia-Urss” e “France-Urss”, sebbene se ne fosse rimasti talvolta delusi. Fra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta i cosiddetti “film sovietici del disgelo” mostrarono all’Ovest, anche tramite le vetrine dei festival internazionali (Venezia e Cannes su tutti), il tentativo di destalinizzazione della società, pur con tutte le sue ambiguità e limiti. Gli anni Sessanta e Settanta videro il fiorire dei progetti di coproduzione, all’interno del clima di coesistenza pacifica e distensione (Italiani brava gente; La tenda rossa; I girasoli; Waterloo; Una matta, matta, matta corsa in Russia; La vita è bella). Si trattò di operazioni con esiti alterni sul piano artistico ed economico, ma che testimoniavano un interesse e una volontà di cooperazione, al contempo economica e culturale, tali da attirare le attenzioni del Kgb per l’eccessiva disinvoltura finanziaria e i rischi ideologici con cui i servizi di sicurezza guardarono a quelle iniziative.
Uno dei progetti di coproduzione riguardò anche il già citato Tarkovskij, grazie all’amicizia con Tonino Guerra, grande mediatore fra le due culture. Dalla fine degli anni Settanta il cineasta sovietico, attaccato dalla critica di regime per i suoi film lontani dalle richieste del partito, iniziò i suoi soggiorni in Italia realizzando il documentario Tempo di viaggio e poi nel 1983 Nostalghia, dopo cui annunciò che non sarebbe più tornato in Urss. Lo spunto narrativo del film – il viaggio del poeta russo in Italia sulle tracce documentali di un musicista connazionale del XVIII secolo – diventa un espediente per raccontare la nostalgia dell’artista per le proprie radici spirituali, di cui va alla ricerca fuori dalla propria patria, così come Tarkovskij stesso scelse la via dolorosa dell’esilio volontario.
Una consonanza culturale e ideale di cui è prova – apparentemente inaspettata – anche l’accordo, sempre nei primi anni Ottanta, fra la società cattolica Sanpaolo Film e la Sovexportfilm, per l’acquisto di una cinquantina di film sovietici per ragazzi da proiettare nelle sale parrocchiali e da trasmettere alla televisione in un momento in cui emergeva con forza la necessità di riempire i palinsesti delle neonate emittenti private. Un accordo che si spiega con il riconoscimento del valore educativo di quella produzione, benché provenienti da un Paese ufficialmente ateo e, peraltro, in un periodo di rinnovata tensione con il blocco occidentale. L’interesse della Sanpaolo Film supererà la stessa stagione storica del bipolarismo per concretizzarsi nella circolazione dei classici dell’avanguardia sovietica in formato vhs, con la paradossale vendita da parte dell’ente cattolico di Ottobre di Ejzenštejn (1928), ossia la mitopoiesi filmica della rivoluzione bolscevica.
Negli anni della Perestrojka gorbacëviana, mentre Arnold Schwarzenegger recitava sulla piazza Rossa in Danko, Nikita Michalkov realizzò Oci ciornie, che valse a Marcello Mastroianni il premio a Cannes
Il dialogo sovietico-occidentale nel campo del cinema proseguì fino alla fase terminale della stessa Urss. Negli anni della Perestrojka gorbacëviana, mentre Arnold Schwarzenegger recitava sulla piazza Rossa in Danko (Walter Hill, 1988) – primo film americano ad ottenere il permesso di effettuare riprese a Mosca –, Nikita Michalkov realizzò Oci ciornie (1987) che valse a Marcello Mastroianni il premio a Cannes. Il regista sovietico, sempre capace di adattarsi fluidamente ai nuovi contesti politici e culturali del suo Paese, fu l’interlocutore principale dell’Italia in questi ultimi anni sovietici, collaborando anche alla realizzazione di prodotti come Autostop (1990, nato per promuovere l’allora nuova Fiat Tempra) e lo spot, dai rimandi felliniani, della Barilla, seconda pubblicità occidentale girata in Urss dopo quella della Pepsi trasmessa in occasione del Super Bowl del gennaio 1989.
Dagli anni Novanta a oggi il cinema russo post-sovietico si è ancora fatto spazio negli schermi occidentali, soprattutto grazie a cineasti eredi della migliore tradizione autoriale del passato sovietico (fra cui Aleksandr Sokurov e Andrej Zvjagincev) secondo cui la settima arte è in primis ricerca spirituale e onestà intellettuale, anche al costo di scontrarsi con le autorità del proprio Paese.
Questi sono solo alcuni esempi dell’incontro con un mondo di immagini molto meno distante dal nostro di quanto possa sembrare. Un dialogo reso possibile da condizioni e interessi – geopolitici, ideologici ed economici – che finora hanno nonostante tutto permesso ad alcuni di parlare della celeberrima Corazzata davanti al porto di Odessa come del miglior film di sempre; ad altri, invece, di dire – parafrasando Fantozzi – che si tratta di una “cagata pazzesca”. In ogni caso, occorre salvaguardare la circolazione della cultura e favorire così una comprensione migliore della realtà, tanto del passato, quanto del presente, ancor di più in un momento di drammatiche fratture internazionali come quello attuale.
Proprio in queste settimane di conflitto in Ucraina, chi scrive mostra ai suoi studenti del corso di Cinema e Storia una selezione comparata di film americani e sovietici dell’epoca della Guerra fredda per svelare temi e tecniche della comunicazione cinematografica durante il quarantennio di antagonismo Est-Ovest. Lo fa perché crede fermamente nell’utilità di conoscere e approcciarsi criticamente ai prodotti culturali, e rifiuta altrettanto convintamente un boicottaggio miope che impoverisce e restringe ulteriormente la visione del mondo.
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