“Papà, perché non posso andare a scuola? Cosa ho fatto di male?”. È la domanda che il figlio di un amico, un bimbo di terza elementare, ha rivolto al padre, che gli diceva che la scuola era di nuovo chiusa, per un atto di imperio – parola usata non a caso – del presidente della regione Campania, De Luca.
Questa domanda racchiude, da un lato, lo spaesamento e la destabilizzazione che continuiamo a calare sui nostri bambini e sulle nostre bambine, su ragazze e ragazzi, senza renderci davvero conto – o peggio ancora ignorando – il danno educativo e psicologico che stiamo generando, e dall’altro, il profondo tradimento di dirigenti scolastici, docenti, alunne e alunni, educatori ed educatrici che in questi mesi hanno fatto uno sforzo enorme per riaprire la scuola in sicurezza.
Chiudere le scuole appare una scelta colpevole e irresponsabile soprattutto in una regione come la Campania, dove è forte e diffuso il fenomeno della povertà educativa. Per centinaia di bambini e bambine la scuola non rappresenta solo un’opportunità educativa ma un luogo sano di relazioni, libere da ansie e tensioni che potrebbero vivere nei loro contesti familiari, non per cattiveria ma perché spesso i genitori sono schiacciati e incattiviti dall’ansia di arrivare a fine giornata. Per questi bambini e queste bambine andare a scuola rappresenta l’unica occasione per leggere un libro, visitare un museo o fare un pasto equilibrato e completo nel corso della giornata. A essere maggiormente colpiti, quindi, sono gli alunni e le alunne più deboli e fragili (i ragazzi e le ragazze, i bambini e le bambine che vivono in famiglie povere, quelli/e con diverse abilità e quelli/e con background migratorio), per i quali e per le quali la didattica a distanza non può essere la soluzione, nonostante gli straordinari sforzi di dirigenti, docenti, educatori/trici e operatori/trici. Rischiano di essere vanificati gli sforzi che erano stati fatti per riagganciare e riportare a scuola tutti gli e le adolescenti che erano usciti dal percorso scolastico, convincendo le famiglie a investire nei loro percorsi di studio. Non si capisce, infatti, che la didattica a distanza da un lato può essere usata come alibi per le famiglie che non investono sulle carriere scolastiche dei loro figli, dall’altro può rendere definitivamente invisibile la dispersione sommersa in presenza, che rappresenta uno dei principali problemi nel biennio delle superiori.
La decisione di chiudere le scuole, di passare dalla didattica in presenza a quella a distanza (Dad), dà un segnale chiaro: implica considerare bambine e bambini, ragazze e ragazzi come consumatori, come untori, come bamboccioni, ma mai come studenti; indica che ancora una volta le politiche per la scuola, per l’istruzione e per il contrasto alla dispersione scolastica sono considerate come accessorio del Paese e non, invece, come presupposto al suo sviluppo, come azioni indispensabili alla rimozione delle disuguaglianze, all’esercizio dei diritti, alla costruzione di un’economia giusta e responsabile. È come se non si riconoscesse la scuola come primo attore, pubblico e repubblicano, della nostra democrazia. Come luogo essenziale non solo per l’educazione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, ma anche come palestra civile dove educare alunne e alunni alla cittadinanza, alla convivenza, alla relazione tra differenti.
Ancora una volta la scuola è vista come “luogo sacrificabile” per mascherare mancanze e scelte politiche arroganti e incapaci su sanità, trasporto pubblico e assetto urbano. Certo, vanno costruite proposte in tutti questi ambiti, ma andava fatto già nei mesi scorsi, e invece non è stato fatto. Al contrario, sono questi i settori in cui, anche in Campania, sono stati fatti tagli e scelte diverse.
Del resto, che la scuola per molti anni non sia stata la priorità del Paese lo si evince anche dai dati sulla spesa in istruzione: mentre, a partire dal 2010, la maggior parte degli Stati investiva in istruzione anche per affrontare al meglio il salto tecnologico, nel nostro Paese la spesa in questo comparto è diminuita sistematicamente, portandoci verso una trappola di bassa crescita.
È necessario invertire la rotta e aumentare gli investimenti in istruzione. È una delle richieste che abbiamo avanzato con le reti che con noi partecipano al percorso educAzioni: investire il 15% delle risorse strutturali ed europee a sostegno di un piano strategico nazionale a sostegno dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Un investimento di questo tipo deve essere in grado di dotare le scuole delle risorse necessarie, di migliorare la qualità dell’istruzione rendendola più equa ed incisiva, di contrastare la povertà educativa e la dispersine scolastica. Si tratta dell’investimento più importante per il Paese, in grado di promuovere il benessere sociale ed economico delle generazioni presenti e future. È chiaro poi, che per evitare che un investimento di questo tipo sia frammentario e disarticolato, e quindi per fare in modo che abbia un impatto reale sulla vita di bambine e bambini e ragazze e ragazzi, è indispensabile definire obiettivi chiari e sistemi di monitoraggio, per promuovere il rilancio diffuso delle infrastrutture sociali ed educative.
Dobbiamo quindi tutti metterci al lavoro, come molti stanno già facendo, per costruire alternative, nuove modalità di fare scuola ma garantendo a bambine e bambini, a ragazzi e ragazze il diritto a studiare incontrandosi con altre e altri. Si può fare, se la scuola viene messa al centro della politica e degli investimenti. Altrimenti continueremo a limitarci alla lamentela. All’incoerenza di dirci che era la normalità di prima il problema ma poi a rituffarci di nuovo in essa, troppo timorosi di investire davvero in un cambiamento radicale. Forse perché tutte e tutti noi siamo tra quei garantiti che tutto sommato nella realtà di prima stavano e stanno bene.
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