Non passa giorno senza che la cronaca si soffermi su questioni, temi, polemiche legati al fascismo inteso non come fenomeno storico, ma come invadente presenza politica e culturale. Non si tratta di un generico appello all’autoritarismo o a politiche di destra, ma di riferimenti al fascismo e di specifici richiami al suo leader e fondatore. L’elenco sarebbe lunghissimo. Si va dalla cronaca locale dove diversi candidati consiglieri comunali inneggiano al duce o il cameriere si scusa con l’immagine di Mussolini «per aver servito dei negri», alla riflessione politica in cui Silvio Berlusconi si vanta di aver «legittimato» non la destra ma, esplicitamente, «i fascisti», passando dalla cultura dove grande eco ha avuto il film Sono tornato in cui si immagina, in chiave satirica, il ritorno in Italia di Mussolini.
Che dire poi delle continue e prolungate polemiche sulle ipotesi di aperture di musei incentrati sul fascismo – a Predappio, a Milano, a Roma – e del furto, dall’Archivio di Stato, di 970 labari della marcia su Roma, poi recuperati, quasi una metafora del rifiuto del fascismo di farsi rinchiudere negli archivi. All’ordine del giorno anche le controversie sui simboli architettonici del Ventennio, ancora piuttosto evidenti in tutto il territorio nazionale e in qualche caso persino valorizzati, per non parlare del diffuso e persistente merchandising iconografico che, non solo a Predappio, segnala l’esistenza di un vero e proprio mercato della nostalgia (e che, come tutto quello che risponde alla logica del mercato, se prospera vuol dire che funziona).
È dunque lecito chiedersi perché quel passato non solo non passa, ma sta diventando un inquietante scenario della normalità del presente. Perché si moltiplicano formazioni e partiti che si richiamano, più o meno esplicitamente, al passato regime facendo leva sui temi dell’identità e dell’ordine? È importante chiederselo anche perché la via «giudiziaria» non funziona e, comunque, non risolverebbe il problema. I tribunali non ravvisano quasi mai la costituzionalmente vietata «apologia del fascismo» e pure le proposte d’introdurre per legge il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista, come recentemente è avvenuto con il «progetto di legge Fiano», suscitano diverse perplessità perché rischiano di limitare la libertà di espressione in ambito scientifico e didattico e sicuramente non sono utili a prosciugare lo stagno dell’immaginario neofascista.
È certamente vero che il fenomeno è in parte accresciuto dalla percezione del declino economico e dalla narrazione di una crisi che si nutre dell’incremento dei flussi migratori e delle difficoltà in cui si dibatte il progetto europeo. Ma tutto questo non ci spiega la peculiarità italiana del problema, vale a dire perché l’Italia, a 75 anni dalla fine del nazifascismo, continua ad avere il fascismo nella sua agenda politica quotidiana e non l’ha trasformato in un oggetto solo di indagine storica. In tutti i Paesi esistono, e in alcune fasi prosperano, formazioni politiche che si richiamano espressamente al nazifascismo, ma in Italia il fenomeno è percepito come concreta minaccia politica in maniera particolarmente forte. E se è certo che non possiamo dimenticarci che siamo stati noi a inventarlo, è anche vero che oramai abbiamo alle spalle una lunga storia di democrazia repubblicana.
[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 5/20, pp. 864-872. Il fascicolo è acquistabile qui]
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