In Italia vige una credenza, a volte tristemente confermata dai fatti, secondo cui la società si muova più velocemente delle leggi. Tuttavia, non sempre è così. Se nel campo dei diritti umani, ad esempio, la società italiana risulta più avanzata del diritto, la salute mentale è uno di quegli ambiti in cui, invece, è più facile che i documenti istituzionali e le leggi superino la prassi, che invece risulta arretrata negli approcci, nei linguaggi e nei risultati. In tal senso, il quadro restituito dal recente rapporto sulla salute mentale del ministero della Salute è desolante.

Si viene a delineare una situazione caratterizzata da una grande pressione all’ingresso, dove si entra nei percorsi di presa in carico territoriale tendenzialmente in situazioni ormai gravi. Nel 2021, gli accessi al Pronto soccorso per problemi di salute mentale sono stati il 3,3 % del totale, circa 480 mila; accedere al Pronto soccorso significa che si stanno sperimentando sintomi molto forti, in genere. I fruitori dei servizi di psichiatria pubblici equivalgono a circa 780 mila persone, e di questi solo una piccola parte (quasi 290 mila persone) sono casi nuovi; gli altri sono abituali. Inoltre, il 14 % delle dimissioni ospedaliere del 2021 (circa 130 mila) è rientrato in struttura dopo un mese, il 7,7 % dopo una settimana: vuol dire che le cure ospedaliere (più costose di quelle domiciliari e ambulatoriali) faticano a far fronte al problema, e che si riesce ad arrivare a un contenimento solo temporaneo. Il 67,3 % delle persone in carico ha più di 45 anni, mentre sono pochi i cittadini al di sotto dei 25 anni. Si può concludere che il servizio pubblico serva in prevalenza cittadini in età adulta, in stadio avanzato del problema, per i quali sembra che la sola possibilità sia la compensazione farmacologica; la recovery è ormai lontana.

Andando ulteriormente nel dettaglio delle questioni, si nota che nel report si parla ancora di nevrosi, una categoria diagnostica rimasta ormai solo nell’Icd-10, il manuale utilizzato in medicina; nell’omologo psicologico, il Dsm-5, le nevrosi sono invece scomparse. Questo autorizza a pensare a un approccio alla salute mentale territoriale e pubblica di natura prevalentemente nosografico, patologizzante, il che è confermato dal fatto che gli psicologi sono in netta minoranza nei servizi dedicati alla salute mentale, mentre il personale è in maggioranza infermieristico (41.1%) e medico (34.4%), funzioni dedicate più all’assistenza e al trattamento dei sintomi che a percorsi di remissione.

Si stima che fino a tre milioni di cittadini soffrono di depressione, ma solo un decimo di questi viene preso in carico dal Sistema sanitario nazionale

E poi: qual è il sommerso? È sempre difficile stimare esattamente la dimensione di quella parte dei fenomeni che sta sotto il pelo dell’acqua, ma si possono usare degli indicatori prossimali che suggeriscono quantomeno un ordine di grandezza. Se, ad esempio, le diagnosi di depressione nel pubblico equivalgono a circa 210 mila, Aifa riporta, in base ai consumi di farmaci antidepressivi, che si può stimare che fino a tre milioni di cittadini soffrono di depressione, ma solo un decimo di questi viene preso in carico dal Sistema sanitario nazionale. Inoltre, dai dati del Sistema informativo sulla salute mentale, emerge che l’11,1 % dei cittadini che entrano in contatto con un servizio territoriale rimangono senza prestazione. Quello per la salute mentale è quindi un sistema che, come si suol dire, fa acqua, ossia che non riesce a recepire tutta la domanda: pur occupandosi dei cittadini più gravi, anche tra questi ne perde una parte importante.

La situazione purtroppo scivola ancora più a fondo se si prendono in considerazione gli interventi di prevenzione. Non c’è che dire: la prevenzione riceve le stesse attenzione e serietà dalle istituzioni che può ricevere, per rendere bene l’idea, una sagra estiva. Se da un lato il Piano nazionale della prevenzione 2020-2025 mette al centro modelli innovativi come quello One Health e la necessità di approcci inter-settoriali e coordinati, dall’altra parte nei nuovi Livelli essenziali di assistenza la salute mentale non rientra nelle sette aree strategiche di prevenzione collettiva. Se il Piano d’azione europeo per la salute mentale mette al centro delle strategie diritti umani ed equità, dall’altra parte i principi prevalenti che regolano l’offerta di servizi sono quelli del mercato privato, entro cui si trovano la stragrande maggioranza degli psicologi e degli psicoterapeuti.

È davvero miope trascurare la prevenzione: se il problema alla base dello stato di grave deprivazione in cui versa il Ssn è la mancanza di fondi, è stato dimostrato che per ogni dollaro investito in salute mentale il ritorno è tra il 200 e il 500%. Un cittadino con sintomi depressivi e ansiosi tenderà a gravare sul resto della comunità non solo per via della presa in carico pubblica (che comunque avviene in modo limitato), ma anche perché avrà bisogno di assentarsi spesso dal lavoro. Occuparsi solo di casi gravi vuol dire accettare di intervenire in modo insufficiente e in situazioni che necessiteranno di budget importanti, nettamente superiori a quelli necessari a fare lavoro di prevenzione.

Recentemente l’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato un rapporto dal titolo Transforming mental health for all. Si tratta di un documento di valore enorme sul piano culturale, in quanto evidenzia la necessità di spostare verso la comunità il fulcro degli interventi. Cosa significa questo? Significa che per affrontare i problemi di salute mentale della popolazione generale, aggravatisi tra l’altro in seguito alla pandemia e all’instabilità dello scenario internazionale, bisogna che la psicologia operi non solo nel campo della terapia, ma collabori attivamente a rinforzare le reti sociali dei cittadini, a migliorare le condizioni lavorative, a ridurre la disoccupazione, a sviluppare politiche per l’abitare. Serve insomma più psicologia di comunità, attiva in prima linea sul fronte dei determinanti sociali della salute.

Per affrontare i problemi di salute mentale della popolazione generale, bisogna che la psicologia operi non solo nel campo della terapia, ma collabori attivamente a rinforzare le reti sociali dei cittadini

Il policy paper del “Lancet” sulla Public Mental Health parla in modo esplicito della necessità di promuovere la salute mentale e di attuare prevenzione agendo proattivamente nei contesti di vita: cliniche post-natali, scuole, posti di lavoro, carceri, campi di rifugiati, quartieri. Da questo punto di vista l’approccio di modelli di intervento quali il bonus psicologo e lo psicologo di base, oltre che – nel primo caso – fallimentari, rischiano di risultare obsoleti: il punto, infatti, non sta nel mandare tutti dallo psicologo, ma di mandare lo psicologo da tutti.

È arrivato, insomma, il momento di iniziare a parlare di salute mentale come di una qualità del sistema sociale e delle comunità, non estranea alla rabbia che si riversa sui social, alla sfiducia dilagante nel prossimo, alla risacca della cultura democratica; qualcosa che non può essere trattato individualmente in uno studio. Si deve, piuttosto, dare enorme rilievo alla capacità dei network territoriali di collaborare per davvero, e in modo efficace, rilievo alla costruzione di comunità coese, e rilievo alla qualità relazionale dell’offerta pubblica di servizi, dai servizi sociali ai medici di Medicina generale. Si deve, con coraggio, avviare un processo di cambiamento culturale, e smettere di rinchiudere la psicologia negli studi, dandole voce nella rigenerazione urbana e nelle politiche del lavoro, nella co-progettazione e nelle governance del Welfare.

L’individualismo metodologico, che sta alla base dell’approccio classico alla salute mentale, rischia di essere parte del problema più che una soluzione. Bisogna avere l’ardire di attribuire la responsabilità di molti problemi di salute mentale a un contesto impazzito: la soluzione, pertanto, è là fuori.