Un invito alla lettura di “Per una critica dell’economia turistica” di Giacomo-Maria Salerno. Leggere l’imponente ricerca di Giacomo-Maria Salerno sulla turistificazione, e farlo proprio nel pieno dell’attuale e profonda crisi del settore, quando le strade delle nostre città d’arte sono completamente prive di turisti e anzi sono scosse da sommosse - e talune jacquerie - che partono proprio dal segmento del leisure così gravemente colpito, può apparire un controsenso. Oggi quel turismo di ieri, quel mitologico “oro nero del paese”, pare un miraggio ormai lontano. Ma la storia economica (al pari di quella epidemiologica) ci insegna che le “seconde ondate” di fenomeni così dinamici sono incredibilmente più vivaci delle precedenti, e così già domani “un'ondata di ritorno” dell’economia turistica è facilmente prevedibile se non proprio nei tempi almeno nell’intensità. Appare in fondo la risposta più probabile al bisogno di evasione che la stessa contenzione da lockdown sta accumulando.
Giacomo Salerno indaga l’origine e i costrutti dell’economia turistica - settore che oggi pesa il 10% del prodotto interno lordo mondiale - con una ricerca che partendo da solide radici filosofiche giunge attraverso una storiografia critica ad una lettura economica del fenomeno. Negli ultimi capitoli dell’opera l’autore si focalizza sulla genesi e l’impatto sociale dell’economia turistica sulla “città più turistificata del mondo”, la sua città natale, Venezia.
Si percepisce tra le righe del suo lavoro, specie in quest’ultima sezione, quello che Donna Haraway definisce un “distacco appassionato”, quell’atteggiamento dello studioso che senza mai trascurare l’accuratezza del metodo non fa segreto dell’impegno civile che ne è il movente profondo, come giustamente osserva anche Giovanni Attili nella bella introduzione a questo volume edito da Quodlibet.
“Da dove nasce il nostro desiderio di viaggiare? E in quale misura il viaggio è oggi inesorabilmente confinato nella sua cornice turistica, come già ci raccontava Marco d’Eramo? Ed infine quanto questa specializzazione turistica del paese (che assume oggi forme di concentrazione dei capitali che ricordano quelle dell’industria pesante nel secolo scorso) muta l’oggetto stesso del consumo turistico, ovvero la città?”
Salerno ci spiega che sebbene nulla sembri mutare in una città storica divenuta essa stessa oggetto di consumo, perché non vi spuntano nuove torri di fabbrica ottocentesche tra i palazzi del centro, né quegli enormi uffici novecenteschi che sorgevano come funghi brutalisti nelle sue tangenziali durante l’avvento della “città dei servizi” raccontata da Lefebvre, qualcosa di impercettibile e profondo oggi ne sta rimodellando il tessuto urbano, omologando nei dettagli ciò che per sua natura e tipicità sfuggiva ancora fino a pochi decenni fa all’omologazione. E questo qualcosa accade ovunque, perché la città turistica è una fabbrica diffusa e senza zoning.
Gli addentellati di una ricerca così ampia spaziano evidentemente su terreni e discipline diversissime. Visti isolatamente sia la natura economica del fenomeno sia i numeri del suo affermarsi sul prodotto interno lordo non raccontano infatti granchè. È giusto in un quadro interdisciplinare come quello messo in campo da Salerno che ne possiamo cogliere le sfumature, spiegare le ricadute, preconizzare forse alcuni sviluppi. Analizzare il turismo escludendo l’urbanistica o la psicologia di massa, la storia economica o le premesse culturali, si ridurrebbe oggi a registrarne sterilmente gli indici di crescita. “Per una critica dell’economia turistica” osa invece affrontare il terreno impervio di un’analisi dal carattere tentacolare e a tratti sfuggente, e riesce in questo egregiamente, mantenendo una struttura unitaria anche e soprattutto grazie ad una corposa bibliografia che riempie le 22 pagine finali del suo volume e restituisce il peso di un lavoro sul terreno dei Tourism Studies durato certamente alcuni anni.
Salerno ci dimostra anche quanto sia incrostata e sterile la semplice “critica al turismo di massa”, che nei suoi anatemi appare da tempo esaurita e classista, una doléance ormai plurisecolare, raccontandoci ad esempio di quando Charles Lever scrisse nel 1865 per il “Blackwood’s Magazine” che «Le città d’Italia sono sommerse da mandrie di queste creature che non si separano mai [e che si riversano in giro] con la loro guida» o di Alexander Shand che nel 1903 affermava con nostalgia che «[un tempo] i turisti erano una rarità e non c’era la plebe viaggiante di oggigiorno».
L’analisi ambisce a valicare una critica moralizzatrice, rinunciando con decisione a gettare uno sguardo elitario sul “turista di massa” (eternamente altro da noi stessi), cercando piuttosto di decrittare un fenomeno molto più carsico, costitutivo, di cui sono inevitabilmente intrisi i nostri stessi desideri, quei desideri che finiscono per calarsi su gusti riconducibili a pochi e logori filoni narrativi, anche quando a tracciarne appunti sui taccuini siano degli intellettuali. Perché è il viaggio stesso nell’era del capitalismo che finisce per modellarsi su dei format oggettivamente pregni di esperienzialità simulate, dagli spigoli smussati, in cui il palcoscenico prevale sull'incontro, in cui ciascuno ambisce ad interpretare un Fitzcarraldo nella foresta e spesso poi si ritrova suo malgrado ad indossare i panni di un Fantozzi all'aeroporto. È la stessa dislocazione fisica dell’io turistante che avviene ormai tra sfondi che appaiono sempre più omogenei, in frammenti di quella che Koolhaas chiama la “Città Generica”, l’ogni luogo in cui la tipicità tende ad affievolirsi o a trasformarsi in una sua parodia addomesticata, producendo frustrazione tanto in chi vi risiede quanto in chi da visitatore cerca di consumarne i pochi, rimanenti, residui d' “aura”.
Se vogliamo trovare un limite alla ricerca di Salerno, lo troviamo forse nel versante più strettamente economico, spesso ricondotto a cascame di produzioni d’immaginario; l’opera in questo senso rivela senz’altro la forte formazione filosofica dell’autore. Su questo terreno l’analisi lascia poco spazio a quella richiesta di “specializzazione turistica” che emerge prepotentemente dal basso, dai territori, a quella “autoconformazione” dei luoghi intorno ai presunti gusti dell’ospite, che spesso è guidata - come giustamente verso la fine osserva l’autore - proprio dai vuoti che un precedente modo della produzione ha lasciato nella tessitura economica e sociale delle città. L’economia turistica insomma viene involontariamente ad essere rappresentata come lo specchio dei “desiderata del consumatore” e di un parallelo “processo pilotato da forti afflussi di capitale”, e solo marginalmente come “mimesi preventiva” - quanto generativa di segni - dei territori stessi. Dei diversi tasselli del puzzle si rischia perciò di smarrire il peso relativo in questa complessa ricostruzione.
Ma si tratta senz’altro di un limite posto solo dal titolo dell’opera che segna di essere una Critica dell’economia turistica ed è invece capace di spaziare ben oltre questo confine quanto di possedere un valore finanche antologico.
Quello di Salerno è così un libro che merita di essere presentato nei territori, nelle librerie, per alimentare quella funzione storica assegnata agli intellettuali da Gramsci: l’attivazione del dibattito, l’aumento di spessore delle argomentazioni, e nel nostro caso la necessaria contestualizzazione di quella che viene presentata come una irresistibile dedizione vocazionale dell’intero paese alla monoeconomia turistica, settore che mostra invece già profonde fragilità.
Oggi è difficile anche solo immaginare una città storica del nostro paese con pochi turisti, eppure solo settant’anni fa il turismo mondiale era appena il 4% di quello attuale. Aiutarci a capire come e quanto un rituale di consumo abbia modellato i nostri desideri e quanto oggi tendiamo a legare la tenuta di un intero sistema economico agli immaginari aleatori a cui risulta indissolubilmente legato, rende il lavoro di Salerno senz’altro una importante lettura in questa fase.
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