Il tema della cittadinanza, e dunque della definizione del perimetro della comunità politica di uno Stato, seppure istituto giuridico di lontanissima origine, costituisce nondimeno uno dei grandi protagonisti del dibattito contemporaneo sui diritti. Nonostante le semplificazioni frequenti, che tendono a darne un’immagine univoca e perfettamente definita dal suo ben sperimentato significato burocratico, infatti, la nozione di cittadinanza è piuttosto un indicatore critico, un punto di convergenza cruciale di processi giuridici, politici e sociali di particolare intensità, nonché di complesse negoziazioni di senso. Cittadinanza suppone infatti anche appartenenza – o inversamente, esclusione – rispetto a un universo di cultura e di simboli centrale per la vita di individui o gruppi. Cittadinanza implica altresì identità, e dunque modi e confini della percezione di sé: l’apolide – la persona senza cittadinanza – costituisce l’archetipo stesso dello sradicamento e della solitudine sociale.
I mutamenti profondi che stanno ridefinendo il mondo globalizzatole impongono peraltro nuove considerazioni e una sostanziale ritaratura di questa nozione tradizionale. I fenomeni complessi di interconnessione economica e politica, gli irreversibili flussi migratori, i processi di funzionalizzazione o defunzionalizzazione dei confini fra Stati, la perdita di nitidezza dell’immagine classica dello Stato-nazione sono realtà evidenti e straordinariamente modificative da cui deriva una quantità di effetti inattesi, e di conseguenze latenti di lungo periodo.
Ecco perché la cittadinanza è oggi un universo semantico particolarmente polimorfo, e per così dire irrequieto. Lo Stato riconosce all'individuo uno specifico status giuridico, un particolare «pacchetto» di diritti e di doveri idoneo a distinguere tale individuo (il cittadino, appunto) da chi di tali diritti e doveri è sprovvisto. Non vi è dubbio, tuttavia, che questa rappresentazione di una comunità dai connotati esclusivamente formali – e per così dire «verticali» – lasci fuori dal contesto una serie di variabili fondamentali. Il medesimo istituto della cittadinanza appare infatti sostanzialmente diverso qualora si faccia riferimento al comune vincolo di identità – politica, sociale, etnica, religiosa, culturale – che unisce un individuo ai suoi concittadini. Questo vincolo, a differenza del precedente, non presuppone necessariamente l’esistenza di un legame verticale con lo Stato, ma si manifesta e articola in un insieme di rapporti di tipo orizzontale. Ebbene, nessuna delle due dimensioni può oggi essere considerata di per sé sufficiente a cogliere la complessità multiforme di una realtà tanto complessa e dinamica. La cittadinanza come processo, piuttosto che semplicemente come dato, si impone dunque, necessariamente all’attenzione degli studiosi.
Il caso israeliano fa emergere le difficoltà e i dilemmi di una definizione puramente giuridica e costituzionale del concetto di cittadinanza, in quanto – contemporaneamente – norma e cultura, struttura giuridica e vincolo di senso
Di questo complesso dibattito in transizione Israele rappresenta un caso particolarissimo, e nello stesso tempo ricco di indicazioni, possibilità e suggestioni di portata ampiamente generale. È proprio qui che il problema antico della cittadinanza mostra con straordinaria evidenza la sua modernità sorprendente, tutte le dimensioni appena accennate. Il caso israeliano, con i suoi molteplici clivage identitari, fa emergere le difficoltà e, ancora di più, i dilemmi di una definizione puramente giuridica e costituzionale del concetto, e del fatto stesso, della cittadinanza, in quanto – contemporaneamente – norma e cultura, struttura giuridica e vincolo di senso. La legge del Ritorno del 1950, che stabilisce il diritto di ogni persona di religione ebraica nel mondo a immigrare e (successivamente) a ottenere la cittadinanza israeliana, rappresenta il vero pilastro del fondamento ebraico dello Stato di Israele, la cui complessa definizione legale ne sancisce il carattere ebraico e democratico (si veda a questo proposito la Dichiarazione di indipendenza del 1948 e la Basic Law Human Dignity and Liberty del 1992). Quali siano le reali possibilità di esistenza di un equilibrio reale tra i due principi in questione è certamente il dibattito costituzionale di maggior rilievo in Israele, e una delle discussioni più complesse nelle analisi contemporanee dei rapporti tra Stato e religione. A questo proposito va ricordato come il recente dibattito circa l’approvazione della Basic Law: Israel as the Nation-State of the Jewish People, che stabilisce che «L’esercizio del diritto di autodeterminazione nazionale è unicamente del popolo ebraico» (Art 1. Com. C) e il respingimento del disegno di legge Basic Law: A Country of All Its Citizens (proposto da alcuni parlamentari della Joint List araba), rappresentino solo l’ultima, «caldissima», tappa del complesso processo di individuazione di una formula giuridica che possa essere appropriata per lo Stato di Israele. Lo studio dell’istituto di cittadinanza e dei suoi relativi meccanismi di inclusione nella ed esclusione dalla comunità politica, assume in questo caso l’interesse cruciale di un vero laboratorio concettuale, le cui implicazioni, utili per comprendere la realtà giuridica e politica israeliana – contro le narrazioni facili, monodimensionali e spesso distorte – rivestono anche una particolare rilevanza teorica generale.
È proprio a causa della difficolta oggettiva di conciliare il carattere ebraico con il carattere democratico del Paese che negli scorsi anni si è sviluppato il teso dibattito che ha visto alcuni autori definire Israele come una «democrazia etnica». Sammy Smooha, coniando questa definizione, intende un sistema di piena democrazia combinato peraltro con l’esistenza di un gruppo etnico maggioritario in posizione dominante rispetto ad altri gruppi minoritari. Questi ultimi tuttavia, nella sua interpretazione, sono in grado di utilizzare ogni elemento del sistema democratico nel quale sono collocati, compresa la possibilità di agire per una sua trasformazione. A questa posizione, altri autori (tra cui As’ad Ghanem, Oren Yiftachel, Nadim Rouhana e Masri Mazen), oppongono una lettura teorica sostanzialmente diversa, ritenendo non accostabili – da nessun punto di vista – il concetto di ethnos, selezionato in base a una appartenenza originaria, e quello di demos, inclusivo di individui di origine diversa e trasversale, cittadinanza e cultura. Israele come «democrazia etnica» sarebbe – da questo punto di vista – un coacervo di elementi contraddittori, ai quali tuttavia mancherebbe il carattere transitorio e una reale possibilità di sviluppo, così da consegnare l’assetto attuale a una sorta di paradossale normalità giuridica. Sarebbe piuttosto la nozione di «etnocrazia» a descrivere la specificità dello Stato di Israele, rimarcando dunque una forte distanza da qualsiasi modello pienamente democratico.
In una posizione mediana e decisamente interessante si colloca il lavoro di Yoav Peled, secondo cui a partire dal 2000, anno dello scoppio della Seconda Intifada, Israele – fino ad allora perfettamente accostabile alla definizione di «democrazia etnica» – si è costantemente mosso verso una forma di Stato che assomiglia fortemente a una etnocrazia. Il nodo della distinzione – e della divergenza – sta nella circostanza che risulterebbe garantito a tutti l’esercizio di uguali diritti, ma riconosciuta solo alla «comunità morale» ebraica la possibilità di concorrere alla realizzazione dell’obiettivo di un bene comune. Ed è proprio questa appartenenza alla «comunità morale» che garantisce e dà diritto all’accesso a una cittadinanza «repubblicana» – riservata agli ebrei – mentre gli arabi israeliani (ed eventualmente anche altre minoranze non ebraiche) sarebbero collocati in uno spazio di cittadinanza «liberale», con il relativo godimento di diritti, ma anche con l’esclusione dalla «comunità morale», asse e appannaggio esclusivo della cittadinanza repubblicana. È proprio la compresenza di due tipi di cittadinanza, «repubblicana» e «liberale», che spinge Peled a identificare Israele come una democrazia ancora in evoluzione e sempre maggiormente orbitante verso l’asse etnico. Proprio l’approvazione nel 2018 della Basic Law: Israel as the Nation-State of the Jewish People, con tutto il suo carico simbolico divisivo, testimonierebbe, in questa chiave, il progressivo avvicinamento israeliano al modello etnico e un simbolico quanto graduale allontanamento dai modelli di democrazia «classica».
Affrontare il tema della cittadinanza in Israele significa porre il problema del modo in cui i criteri di inclusione sociale e di acquisizione della cittadinanza possano influenzare la forma di Stato e il regime politico del Paese, nonché il futuro del conflitto israelo-palestinese
Del tutto evidente, in questo contesto critico, l’interesse «da laboratorio» che l’esempio costituito dallo Stato di Israele presenta dal punto di vista del dibattito, culturale e specificamente giuridico. Si tratta infatti di un «caso» che in tutta la sua complessità – e, a tratti, contraddittorietà – sembra assumere una notevole rilevanza nel consentire l’analisi del valore paradigmatico che la questione relativa alla cittadinanza assume negli ordinamenti giuridici contemporanei. Il «caso israeliano» mostra con chiarezza come lo studio della questione si sia concretamente arricchito di posizioni giuridiche intermedie e sfumate, che – ricorrenti in un quadro al momento tutt’altro che pacificato – mettono in crisi l’equazione della cittadinanza come uguaglianza e rilanciano temi complessi come quello della «semi-cittadinanza» e dell’inclusione differenziale.
In nessun ordinamento giuridico contemporaneo il tema della cittadinanza assume un valore costituente come in Israele. Domande come «chi può essere israeliano?», «quale rapporto esiste tra ebraismo e cittadinanza israeliana?», non sono solo «approcci» giuridici modificabili nel tempo come per la maggior parte degli ordinamenti moderni, ma rappresentano il vero cardine «ontologico» – la stessa ragion d’essere – dello Stato israeliano. Affrontare il tema della cittadinanza in Israele significa dunque porre specificamente il problema del modo in cui i criteri di inclusione sociale e di acquisizione della cittadinanza possano influenzare giuridicamente e politicamente la forma di Stato e il regime politico del Paese, nonché il futuro del conflitto israelo-palestinese: da qui la sua assoluta unicità.
Ma significa anche, in termini generali, porre il problema ben più condiviso di come le processualità cui si è fatto riferimento – la diversificazione interna, il superamento dello di Stato-nazione, la proiezione del diritto in una dimensione «oltre lo Stato», gli effetti della globalizzazione economica e delle migrazioni strutturali, la pressione del sistema-mondo – agiscano di fatto anche altrove, e dunque suggerire la necessità di elaborare modelli di cittadinanza più attenti, partecipati e inclusivi.
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