I dati delle iscrizioni alla scuola secondaria superiore per l’anno scolastico 2024/25, da pochissimo resi noti dal ministero (e dunque suscettibili di qualche aggiustamento), riportano una quota del 5,34% di iscritti al liceo classico, contro il 5,8% dell’anno precedente: un dato, quindi, in ulteriore diminuzione, e in ogni caso da tempo indicativo di un cambiamento d’epoca (5,98% nel 2015/16). Verrà facile, nelle prossime settimane, puntare il dito contro i professori del classico, severi e poco aggiornati, o sulla inutile difficoltà delle materie di indirizzo, il latino e il greco, per gli adolescenti del terzo millennio. E ci saranno i difensori della disciplina, della fatica, così come i difensori dell’inutile, della bellezza. Un dibattito annoso, che troverà il consueto spazio sulla stampa nazionale e sui social network.
Ma l’istruzione classica non è in crisi per la prima volta. Nel passaggio di secolo tra Ottocento e Novecento, in Italia e non solo, contro (e per) il greco venne combattuta una strenua battaglia. L’assalto delle masse che chiedevano una scolarizzazione utile a ricoprire quanto meno i ruoli impiegatizi, per i quali era richiesta una licenza superiore, indusse i vari ministri a provvedimenti anche eclatanti, come l’abolizione della prova scritta di greco all’esame finale (ministro Nasi, 1901), o perfino l’opzionalità greco/matematica negli ultimi due anni del curricolo (ministro Boselli, 1904), poi rientrati. Furono quelli gli anni in cui si definì anche una drastica riduzione del monte orario settimanale del greco e del latino nel liceo classico, e prese forma il liceo moderno, in un assetto complessivo che fu poi assunto e consacrato per decenni dalla riforma Gentile. Il liceo classico attuale non è tuttavia quello di Gentile, ma quello di Gelmini (2010), e non sono mancate, nel secolo gentiliano appena celebrato, le modifiche in chiave più «moderna» del curricolo del classico, a favore della lingua straniera così come della matematica e delle scienze, insieme a varie forme di sperimentazione.
La perdita di iscritti registrata a questo punto, ossia al termine del primo quarto del nuovo secolo, ha una causa generale nel calo demografico che sta interessando il nostro Paese e che ha già prodotto nei gradi inferiori dell’istruzione una progressiva riduzione del numero di classi, soprattutto nelle aree meno coinvolte dai movimenti migratori, come il Mezzogiorno. Pertanto, anche nei ceti che tradizionalmente optano per l’indirizzo classico, il numero dei potenziali iscritti si va via via assottigliando. Da alcuni anni si registra poi la preferenza delle famiglie, italiane e non, per indirizzi che garantiscano uno sbocco lavorativo rapido e sicuro, come in tutte le epoche di crisi economica (per esempio alla fine dell’Ottocento, una fase già citata): la paura della disoccupazione (soprattutto intellettuale) scoraggia l’investimento negli studi superiori.
E poi c’è il feticcio (gentiliano), il liceo classico che «forma la classe dirigente» e che dunque ospita i rampolli dell’élite presunta, e solo quelli. O l’altro feticcio (gramsciano), il liceo classico come palestra di sforzo intellettuale, di fatica dell’apprendere, di cui sono capaci i meritevoli. Nel Secondo dopoguerra il dettato costituzionale ha favorito l’adesione all’ideale gramsciano, naturalmente; la crescita economica rendeva tra l’altro possibile l’ascesa sociale attraverso gli studi. Biografie eclatanti di intellettuali e di uomini di Stato si sono costruite su basi operaie o basso-impiegatizie. Nelle aule del liceo classico si mescolavano figli di papà e figli di nessuno. Ovviamente i figli di papà vincevano la loro partita a prescindere; ma c’era posto anche per gli altri, purché meritevoli. In ogni caso, un’aura classista avvolge l’istruzione classica in maniera persistente, in Italia e in tutto il mondo occidentale, dove attualmente lo studio delle lingue antiche si può realizzare spesso solo in istituzioni private.
Un’aura classista avvolge l’istruzione classica in maniera persistente, in Italia e in tutto il mondo occidentale
Stando ai dati disponibili, gli iscritti al liceo classico senza cittadinanza italiana sono passati da 2.356 nell’anno scolastico 2015-16 a 2.767 nel 2018-19, su totali di iscritti rispettivi di 157.016 e 150.205: la presenza degli stranieri sul totale degli iscritti è pertanto in crescita percentuale dall’1,5 all’1,85%. Significativa, negli stessi anni, la decrescita degli iscritti senza cittadinanza italiana negli istituti professionali (oltre 4 mila unità in meno): questa tendenza si spiega in parte con il malfunzionamento dell’aggancio tra i curricoli e il mondo del lavoro, ma non vanno trascurati i fattori psicosociali per cui gli studenti di origine straniera rifiutano la ghettizzazione nelle scuole di serie C, e si orientano invece quanto meno verso l’istruzione tecnica e quindi verso i licei.
Almeno due ragioni di preferenza per il liceo classico si possono invece riconoscere negli studenti stranieri di seconda generazione: la prima, il tentativo di ottenere il più alto livello di istruzione pubblica disponibile, per proseguire agevolmente gli studi universitari; la seconda, l’identificazione del liceo classico come matrice dell’accesso ai gradi intermedi e alti della funzione pubblica. In altre parole: proprio l’immagine tremendamente elitista del liceo classico italiano è potenzialmente attrattiva per i giovani figli di immigrati. Per molti di questi giovani le professioni impiegatizie o perfino la professione insegnante rappresentano una proiezione futura molto appetibile, e non solo per l’aspetto salariale e di qualità del tempo esistenziale, ma anche per la possibilità di un’integrazione compiuta in una tradizione culturale egemonica. È quasi come preferire una omologazione nella cultura dominante, in un contesto conservatore e «atavico» rispetto alla tradizione classica, quale è quello italiano, piuttosto che opporvisi in una prospettiva post-coloniale: un meccanismo di riconoscimento, questo, che evoca il modello francese della nazionalizzazione.
La questione è come le comunità di insegnanti e studenti con cittadinanza italiana dei licei classici accolgono questa richiesta. Intanto, nell’insegnamento del greco e del latino convivono, in Italia come in Europa, due opposti approcci: quello linguistico-storico e quello culturalista-antropologico. Se quello culturalista sembra poter facilitare l’avvicinamento degli alunni stranieri al mondo classico, dal momento che diminuisce il peso della pratica della traduzione dei testi a favore di una fruizione in lingua italiana del patrimonio letterario greco-latino, non è da considerare impraticabile l’approccio linguistico, purché si compia con la coscienza di dover introdurre nuove modalità didattiche.
Non si tratta solo di utilizzare il metodo induttivo-contestuale, che certo vanta una ormai pluriennale sperimentazione per il latino, sia nella scuola sia fuori di essa, e che ha un ampio accreditamento anche a livello scientifico-accademico; si tratta di insegnare le lingue classiche iuxta propria principia, estirpando la antichissima abitudine scolastica di pensare al latino (e quindi al greco) come lingue che devono tradurre l’italiano. Il greco oppone resistenza a questo appiattimento sin dalla sua introduzione nella scuola dell’Italia unita; il latino però spesso viene insegnato come se ancora l’obiettivo (inconscio) fosse la composizione latina, per cui lo studente che abbia carenze nel dominio teorico e pratico della lingua italiana è già considerato privo dei prerequisiti necessari.
Una critica va mossa al meccanismo di orientamento in uscita dalla scuola media, che stigmatizza quasi sempre l’origine straniera indirizzando gli alunni verso l’istruzione tecnica o professionale
Eppure il rumeno, o lo spagnolo dei sudamericani, o il francese degli africani sono un prerequisito più che sufficiente per il latino. Quanto al greco, nella sua alterità, a partire dai caratteri, è come l’arabo o il cinese. Lo sforzo di appropriazione non è dunque sovrumano, soprattutto se immaginiamo che la scelta di questo indirizzo avvenga da parte di studenti che già nei gradi inferiori dell’istruzione hanno sviluppato capacità adeguate allo sforzo richiesto: in questo senso una forte critica va mossa al meccanismo di orientamento in uscita dalla scuola media, che stigmatizza quasi sempre l’origine straniera indirizzando gli alunni anche capaci e meritevoli verso l’istruzione tecnica o professionale. Certamente si può anche ripensare all’opzionalità del greco nel curricolo, per preservarne la specificità in caso di inclinazione agli studi di storia o di antichistica a livello universitario, o a una diversa articolazione dei contenuti e degli obiettivi nel quinquennio dell’attuale ordinamento (considerando autori da arrivare a tradurre autonomamente solo Senofonte, Luciano o altri di facile interpretazione).
Alla domanda: «Sì, ma in fondo a cosa serve?», la risposta viene degli aspiranti studenti. Incrociando la loro domanda, potremo continuare a far studiare le lingue classiche, la storia e la cultura greco-romana senza limitare il progresso delle conoscenze e, soprattutto, senza sentirci i sacri custodi delle nostre radici.
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