In uno di quei periodi, non troppo lontani nel tempo, durante i quali le misure adottate per contrastare la diffusione del virus prevedevano il limite dei confini comunali per gli spostamenti, ho avuto modo di scoprire lati della mia città che non conoscevo. Pur considerata di medio-piccole dimensioni, l’ho riscoperta ricca di angoli a me prima ignoti, sia che si trattasse di quartieri urbani, residenziali, cementificati, sia che di spazi verdi e semi-selvaggi. Volutamente, il telefono mi accompagnava solo in quanto contenitore di podcast o come mezzo per lunghe telefonate; il navigatore, anche quando mi ritrovavo in zone più periferiche e meno note, ero io stessa, le mie “stelle guida” il profilo delle montagne, la ferrovia, qualche campanile. Un po’ allo stesso modo cerco di orientarmi nelle città che non conosco, studiandomi prima la mappa, creandomene una copia mentale dove andrò a segnarmi alcuni punti di riferimento, anche banali come centri commerciali o negozi specifici e riconoscibili da lontano (alcuni marchi, lo sappiamo, sono inconfondibili). Dopotutto, anche e soprattutto perdendosi ci si imbatte in situazioni e contesti affascinanti e arricchenti, una piccola serendipità della ricerca urbana cinetica.
Per ritrovarti devi prima perderti: proprio come un mantra suona il titolo dell’ultimo libro del geografo Franco Michieli, uscito per l’editore Ediciclo. Leggendolo mi ci sono ritrovata molto: “Vagabondare senza mappa nelle città è un modo interessante di evitare i circuiti delle mete turistiche obbligate, privilegiando i possibili incontri spontanei con aspetti autentici del vissuto locale. Orientarsi all’interno di una metropoli che non si conosce non è molto diverso dal trovarsi in una foresta (salvo che si possono chiedere informazioni ai passanti): i palazzi nascondono gli orizzonti in ogni direzione, la visibilità è ridotta alla larghezza di via e piazze” (pp. 109-110).
Il libro di Michieli è una sorta di manuale di geografia che non vuole offrire nozioni scolastiche in materia, quanto spunti di osservazione pratici per riscoprire quelle facoltà di orientamento che ci sono connaturali, ma che abbiamo in qualche maniera “spento”, deresponsabilizzando “ogni genere di spostamento e rotta, non solo per terra, mare e cielo, ma anche nei tragitti mentali, durante i quali spesso non si consulta il mondo, ma Internet” (p. 22-23). Sulla base di nozioni scientifiche, ma anche emotive (come sminuire il ruolo della paura e dell’empatia nel nostro rapportarci al mondo!), il geografo offre spunti per riappropriarci della capacità di esplorare e vivere la wilderness circostante. Il tutto senza l’ausilio di apparecchiature che fanno nutrire una errata percezione di “falsa sicurezza” e che in realtà inducono “ad abbassare l’attenzione e a non assumersi la responsabilità dei propri gesti” (p. 211): “è un dato acclarato che popoli nativi e animali selvatici sono molto più prudenti degli sportivi delle discipline outdoor. Chi mantiene una percezione profonda del proprio inserimento nella natura compie gesti più misurati proprio grazie alla coscienza della diffusa fragilità e alla consapevolezza di avere tutta la responsabilità per ciò che può accadere” (p. 213).
Non si tratta soltanto di slegarsi dalla strumentazione cui siamo abituati, ma anche di re-impostare la nostra visione del mondo, la quale erroneamente pone “l’uomo al centro del cosmo, tracciando un solco più o meno netto tra noi e ‘la natura’”
Non si tratta soltanto di slegarsi dalla strumentazione cui siamo abituati (orologio compreso, dato che a ben vedere ne abbiamo ancora uno interno), ma anche di re-impostare la nostra visione del mondo, la quale erroneamente pone “l’uomo al centro del cosmo (…), tracciando un solco più o meno netto tra noi e ‘la natura’”, e slega i singoli elementi (esseri umani compresi) per non vederli nel loro insieme sistemico: “Le società civilizzate hanno rimosso il concetto di relazione tra tutte le cose, conservandolo solo per pochi ambiti di immediata utilità. Si è presa l’abitudine di vedere ogni oggetto naturale come individuale: se abbatto un albero, ho solo abbattuto un albero; se sbarro un torrente, ho solo sbarrato un torrente; se brucio petrolio, sto soltanto bruciando petrolio” (p. 22). Proprio questa incapacità di ragionare su causa ed effetto (“per esempio ignorando quale possa essere la traiettoria di una vita consumistica condotta deforestando il mondo e compiacendo tiranni”, ma anche mancando di conoscere davvero il significato di “sete, fame, fatica, isolamento”) è quella che rende “difficile ragionare con realismo di fronte a eventi drammatici” (p. 214).
Concludendosi con una serie di domande pratiche e concrete che puntano a prepararci nel nostro viaggio di esplorazione, Per ritrovarti devi prima perderti di Franco Michieli è una lettura arricchente che non per forza spingerà il lettore a privarsi di ogni strumentazione nella sua prossima escursione in montagna, ma che offre degli strumenti altri per permettere una maggiore consapevolezza sulla rotta intrapresa e sul proprio posto nel mondo. Per poi ritrovarsi.
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