Prima di cominciare a parlare dello strano artista contemporaneo Maurizio Cattelan, mi soffermerò, vedremo poi il perché, su Lorenzo Lotto, il grande pittore rinascimentale, strano anche lui di natura sì, ma che nella sua Annunciazione va fuori dai fogli.

Nell’Annunciazione, appunto, nulla da dire sul classico panorama, azzurro e sereno come in tutte le Avemarie che si rispettino. Sereno però con una nuvola, sola ma tanto densa da penetrare compatta fin sotto il portico, con sopra l’Onnipotente (non tanto alto di statura) che sembra essersi appena accorto di aver dimenticato qualcosa di importante da fare subito, e passa dal pensiero puro a un’urgenza quasi rabbiosa: “Eccola là, quella, quella subito, come ha profetizzato, mi sembra, Isaia”. E infatti, nell’interno della casa di Miriam, si possono cogliere alcuni particolari significativi: nella parte più buia e umile si intravedono alcuni libri e una lampada, poggiati su un disadorno ripiano, dal quale pendono appesi forse una cuffia, forse un velo che potrebbe però anche essere un grembiuletto e infine qualche altra cosina tanto umile che vederla neppur si può. Sotto gli straccetti penduli c’è uno sgabello di legno grezzo e medievale, che regge una clessidra che lampeggia una minaccia temporale che dà ragione all’ansia del Supremo.

Maria è illuminata forse da una finestra che sta alle spalle di chi guarda. Dietro di lei c’è un leggio, rozzo e medievale come il panchetto, sul quale è aperto un libro già letto o da legger dopo. È successo qualcosa: un fracasso inaspettato? Un suon di tromba inimmaginabile? Il debutto di un coro celestiale? Fatto è che Maria, tutt’altro che compunta, volta la schiena al libriccino, sembra avere avuto un sobbalzo e, con le manine spalancate, gli occhi rivolti a chi la guarda, sembra pensare: “Ma che sta succedendo?!”.

Sta succedendo che il suo gattino se ne scappa di fretta verso il buio profondo di un nascondiglio che sa solo lui, e intanto guarda terrorizzato alla sua sinistra (che sarebbe la nostra destra), l’angelo illuminato che, incalzato dall’urgenza del Sommo, si è malaccortamente gettato in picchiata, battendo sul pavimento una ginocchiata alla quale mancano solo le stelline dei fumetti. Con la sinistra regge i gigli dimenticati che avrebbe dovuto offrire planando graziosamente, mentre, solo per tenersi in equilibrio, alza il braccio destro con involontario imperio, invece di accennare quietamente alla Prescelta. I capelli ricci e biondi sono ancora pieni di vento, e lo sguardo e il volto, prima di cominciare a ripetere il consueto annuncio, esclamano in silenzio: “Quanto s’è spaventata, poverina! Speriamo si riprenda prima dei miei saluti da copione!”.

Un’analisi fattuale così minuziosa, seppur dilettantesca, dell’Annunciazione di Recanati del 1534 circa mi lascia con il seguente dubbio: il Lotto dipinse quel quadro per sbeffeggiare i suoi colleghi che, tanto a sproposito, sparlavano di lui? O invece per sbalordire la fede standard dei visitatori del futuro? Io propendo per la seconda ipotesi, sennò perché mi sarei sbalordito anch’io mezzo millennio dopo?

Questa domanda dalla risposta incerta è la prima che ci si dovrebbe porre analizzando l’opera di Maurizio Cattelan, artista grande ma assai poco rinascimentale.

L’arte del XX secolo ha vissuto stagioni meravigliose. Noi vecchi le abbiamo in parte viste nascere e in parte sentite raccontare dai nostri genitori: il cinema, il cinema sonoro, la macchina fotografica Leica, Paul Klee, Mondrian, Bacon con i suoi cardinali deliranti, Paul Jackson Pollock che tracciava emozioni sconosciute… Ho elencato i primi che mi son venuti in mente, ma ce ne sono tanti che, uscendo dai margini prefissati, non avevano intenzione di oltraggiare i colleghi, non gli passava nemmeno per la testa la voglia di sputtanare l’arte in quanto tale: creavano immagini nuove per mostrare la vera essenza della realtà. Di conseguenza, chi vedeva le loro opere e non era pittore e neanche intenditore e neppure collezionista, e nemmeno direttore di un museo, ascendeva dritto all’Empireo oppure precipitava all’Inferno.

Non me ne intendo e non sto a insistere sulle attuali crisi della cosiddetta arte figurativa, se non per dire che Maurizio Cattelan da queste crisi è completamente fuori, perché il suo obbiettivo consiste nello scaraventare all’Inferno d’un botto l’ignaro guardante per caso.

Ho dovuto usare il termine “guardante” perché Cattelan se ne infischia pubblicamente delle mostre e dei musei e, se non fosse per le cifre da capogiro che le sue opere raggiungono, potrebbe dichiararsi indifferente perfino agli acquisti. Infatti Cattelan crea le sue immagini artistiche dopo un secolo e mezzo di fotografia, di cinematografia, di riproducibilità dell’opera artistica (in un futuro assai prossimo anche della scultura), di rivoluzione delle informazioni. Le sue immagini tuttavia, fotografiche o no che siano, sembrano facili e meramente allusive, mentre invece richiedono indagini più complesse di quelle dei dipinti antichi di una volta, al punto che non stento a definirle le prime opere d’arte nel nuovo umanesimo che verrà.

Chi scrive questa complessa e confusa recensione è uno che non ha mai visto nella realtà concreta un’opera di Cattelan, non ha mai visitato una mostra che lo esponesse, e quando pensa a lui può citare solo fotografie sui giornali che riprendono mirabili pupazzi la cui fattura materiale ha forse affidato ad altri, visto che non usa nemmeno uno studio artistico suo. Anche le foto risultano scattate da terzi.

E non parlo di un fantasma impalpabile perché, fra quel che conosco di Cattelan, debbo citare gli scandali sui giornali. Titolo: Bambini pupazzo ultrarealistici impiccati ai rami di un albero!. Sottotitolo: “Sembrerebbe trattarsi di un’altra opera di Cattelan: un passante orripilato, per staccare i bambini dai rami, è caduto rompendosi una mano”. Ebbene, quel poverino caduto dall’albero è la persona per cui Cattelan lavora.

“Un peu d’histoire”, scriveva Victor Hugo, e qui ci vorrebbe uno che avesse l’autorità di declamare: “Un peu de mathématiques de fantaisie”. Proviamo allora a esercitare la nostra fantasia su tre parametri immaginari sui quali si possa idealmente misurare, se fosse possibile, il valore dell’arte di Maurizio Cattelan .

Un primo parametro potrebbe essere l’indice di intollerabilità: il guardante non riesce nemmeno a guardare quel che vede, e il suo orrore si può misurare in una scala che vada, per esempio, da uno a dieci. Un voto molto molto alto spetta ai già ricordati “bambini impiccati” (Senza titolo, 2004) e, a pari grado, allo “scoiattolo suicida” (Bidibidobidiboo, 1996). Come hanno potuto esserini così graziosi, pieni di voglia di vivere e anche dell’illusione di un futuro, porre termine volontariamente ai loro giorni?

Un secondo parametro potrebbe essere l’indice di imperdonabilità: misura quanto si possa perdonare Cattelan per aver creato uno stimolo tanto intollerabile come quelli di cui sopra. Il meteorite che colpisce il papa (La nona ora, 1999) e lo scoiattolo suicida raggiungono differenti gradi di imperdonabilità. Sulla incredibile morte immaginaria del papa si può ragionare: il vicario di Dio in terra colpito, per caso, da un enorme meteorite che ha abbattuto non tanto lui come persona, ma lui come istituto? Più elevato è il numero di ragionamenti che si possono fare, più scende il livello di imperdonabilità. Dallo scoiattolo suicida, infatti, si può solo distogliere lo sguardo senza poter fare alcun ragionamento: tra le due opere citate è questa la più imperdonabile.

Un terzo parametro potrebbe essere l’indice sopportazione sociale. Funziona al contrario dei due precedenti: più alto è di grado, maggiormente viene discussa l’ars poetica di Cattelan. Si tratta di un’opinione personale che non pretendo venga seguita da nessuno. Per spiegarmi, mi riferisco alla scultura dell’enorme mano con le dita mozzate (L.O.V.E., 2010), salvo il dito medio (che rimarrà integro per sempre) a mostrare l’oltraggio del saluto fascista, involgarito, all’architettura fascista del Palazzo della Borsa di Milano, al gioco di Borsa in sé, all’implacabile Finanza che attanaglia il mondo del fare reale. Sarà come sarà, ma dopo un certo scandalo iniziale, l’opera, per adesso, è considerata un ornamento della Capitale morale d’Italia… E, in relazione, fermo restando il valore dell’opera, precipitano i parametri di intollerabilità e di imperdonabilità.

Ed ecco che finalmente siamo arrivati al capolavoro di Cattelan. È intitolato Him, cioè “Lui” (2001), e raffigura Adolf Hitler. Sullo sfondo buio quello che sembra il punto d’incontro tra due pareti boisonnée.

Il Führer (o il suo spettro?) è inginocchiato sul pavimento proprio nell’angolino, a mani giunte come se pregasse in castigo, indossa un vestito europeo degli anni Trenta, spigato, di lana spessa per Paesi freddi. La giacca a petto unico ha allacciati tutti e tre i bottoni, la camicia è bianca e la cravatta nera. Il volto è proprio quello dell’età in cui morì, a 56 anni, ma non è il volto di un uomo malato come quello dalle ultime fotografie che guardo sempre con compiacimento: la sua infernale possanza era già ridotta alla miserabilità di un bancario di mezza tacca che, scoperto con la marmellata rubata, sta meditando se scegliere tra carcere o suicidio.

Il famoso ciuffo nero non si vede più, sepolto dal buio dello sfondo, mentre il volto illuminato che spira una luce di luna potrebbe essere cartilagineo o magari di pietra ma, nonostante la materia di cui è composto, ostenta sbigottimento, sconforto, desolazione, commiserazione per se stesso e gli altri: sembra che stia vedendo per la prima volta l’insieme di ciò che ha fatto e che finga di non averlo mai neppure immaginato mentre lo stava facendo…

Queste sono le fattezze del suo volto, che fa spavento come al solito, anzi, forse un pochino di più. Cercherò adesso di attraversare gli universi che Cattelan sa mostrare all’esterrefatto guardante: sentimenti? Non va bene, perché sappiano tutti che Hitler non ne possedeva. Passioni? Neanche quelle più degenerate vanno bene, perché lui di passioni ne aveva una sola, e poi vedremo quale. E l’ha reiterata per i comizi, i documentari e le fotografie fino al tracollo di Stalingrado. Escludo anche la parola pensieri, perché Cattelan sa bene che essi sono tutti inclusi nel Mein Kampf, stampato in milioni e milioni di copie, che induce schifo per alcune righe e sonno profondo per tutte le altre pagine.

Ricordate le foto di Adolph Hitler in frac che studia le pose da esibire al suo mondo immaginario che ha trascinato nella realtà al solo scopo di ostentare le proprie pose? Sulle prime sembra Mandrake, forse perché stava studiando l’ipnosi delle masse, ma sarebbe vana qualsiasi altra considerazione. Salvo una: Hitler, a differenza di molti altri dittatori, non apprezzava le sculture di se stesso, adorava la pellicola nell’era della Leica e del cinema di Leni Riefenstahl… Ebbene Cattelan è riuscito a progettare la statua di plastica che forse gli sarebbe piaciuta, quella della nuovissima posa del suo immenso dolore postumo.

Adolf Hitler amava i rullini e le pizze di pellicola cinematografica perché fungevano da medium fra sé e la realtà, mentre le statue gli ricordavano la sua natura di pupazzo inanimato. Salvo una, quella di Cattelan che lo raffigura come martire finto di se stesso.

L’opera di Cattelan è insopportabile, imperdonabile, socialmente non tollerabile: per questo Him ha giustamente raggiunto cifre stratosferiche nel mercato dell’arte. Proprio le cifre che, se potessi, vorrei aver speso io per non averla mai veduta.

In fondo anch’io sono una delle persone per cui Cattelan lavora.

 

[Ph: Eleonora Pasqui]