Acque agitate. Nonostante il premier cinese Wen Jiabao, meno di un mese fa, abbia espressamente dichiarato che la RPC non tollera alcun intervento di potenze “esterne” per la soluzione della disputa nel Mar cinese meridionale in corso tra la Cina e altri quattro Paesi dell’Asean (Filippine in primis, seguite da Malaysia, Brunei e Vietnam), la cooperazione ampiamente annunciata tra gli Stati coinvolti non sembra essersi rafforzata. Da una parte, infatti, Pechino preferisce adottare la linea della “diplomazia bilaterale” per la gestione delle controversie in cui è coinvolta, come tutta l’evoluzione storica della sua politica estera in Asia suggerisce. Dall’altra le parole di Wen Jiabao sono sembrate alla maggior parte dei media internazionali (e non solo) una chiara ammonizione per l’eventuale coinvolgimento degli Stati Uniti d’America (i quali hanno recentemente dichiarato di voler rafforzare le proprie relazioni con il Myanmar). Se, infatti, la delicata questione delle isole Spratly e delle altre numerose dispute nel Pacifico occidentale intercorrenti tra i Paesi asiatici potrebbe essere sollevata da Barack Obama e dai suoi consiglieri in uno dei prossimi vertici Asean, dall’altra non sembra essere unicamente questa la motivazione alla base delle dichiarazioni del premier cinese. In quella che Michael Chambers ha definito “win-win” neighborhood policy le dispute sui confini, e in particolare il contenzioso nel Mar cinese meridionale, influenzano profondamente l’attività diplomatica della RPC, secondo un trend di crescente tensione.
Fondamentale, in questo scenario, è il ruolo assunto dalla “diplomazia reale” cinese, di tipo essenzialmente bilaterale: una cospicua attività di negoziazione, programmazione e sottoscrizione di accordi strategici e logistici tra i Paesi del Sud Est asiatico e Pechino. Oltre che attraverso i programmi di interscambio strategico e le attività di cooperazione nella lotta al terrorismo internazionale, la real diplomacy si costruisce attraverso gli accordi di acquisto e vendita di tecnologia militare e strategica, l’ampia normativa bilaterale per la sicurezza sanitaria (rafforzata dopo l’epidemia della Sars), i negoziati bilaterali per il contrasto del traffico di droga nell’area del “triangolo d’oro” (area montuosa tra Birmania, Laos e Thailandia, seconda solo all’Afghanistan per la produzione di oppio). Ma non è tutto.
Nel novembre scorso, migliaia di lavoratori nel Guandong si sono scontrati duramente con la polizia; le loro proteste si sono concentrate a Dongguan, un rilevante centro industriale. Settemila lavoratori, su circa ottomila impiegati (come stimato dalle agenzie giornalistiche ufficiali), dopo aver circondato la sede del governo, hanno manifestato contro i licenziamenti, il taglio dei salari e la possibile delocalizzazione delle attività industriali, prevista dalle autorità centrali. Nel Wukan, una delle più prospere province meridionali cinesi, oltre cinquemila cittadini hanno manifestato contro i presunti brogli elettorali effettuati dal governo nel corso delle recenti consultazioni amministrative e contro la requisizione forzata delle terre da parte delle autorità locali. L’aspetto più rilevante di questa seconda manifestazione di protesta è dato dalla sua crescente politicizzazione e dall’esplicita richiesta della fine della dittatura del Partito comunista. Tanto le controversie marittime con i Paesi dell’Asean – tutt’altro che ricomposte dalla crescente ingerenza di Washington – quanto le tensioni che emergono all’interno delle province meridionali del Paese danno il senso della delicatezza della transizione in corso in Cina.
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