Se Pechino riscrive la storia. Se i cinesi avessero scoperto l’America, contribuito all’affermazione del Rinascimento in Italia e, infine, fossero sbarcati in Africa prima dei colonizzatori europei, migliaia di libri di storia dovrebbero essere riscritti. Non solo: dovremmo forse convincerci del fatto che il vero Cristoforo Colombo sia stato in realtà un ometto con gli occhi a mandorla e una barba lunga, sottile e appuntita.L’unico ad aver sostenuto finora questa versione alternativa della storia è Gavin Menzies, un ufficiale a riposo della Marina britannica che si diletta a reinterpretare i fatti del XV secolo. Non senza andare alla ricerca di fonti, visto che l’autore si è avvalso della personale esperienza nautica sul piano della cartografia e dell’astronomia per cercare prove e documentazione viaggiando in 120 paesi e visitando più di 900 musei e biblioteche.
I suoi due libri, 1421 e 1434, cercano di dimostrare che i navigatori cinesi arrivarono in Cina circa settant’anni prima di Colombo. Non solo, nella prima parte del Quattrocento la flotta guidata dal leggendario ammiraglio Zheng He avrebbe raggiunto anche l'Australia (350 anni prima di Cook), adottato il sistema di misurazione della longitudine (con 300 anni di anticipo), doppiato il capo di Buona Speranza (oltre 70 anni prima di Bartolomeo Diaz e Vasco de Gama), attraversato lo stretto di Magellano e circumnavigato il globo (addirittura 60 anni prima che nascesse Magellano). In Italia, nel 1434 un ambasciatore cinese in rappresentanza dell’imperatore del Regno di Mezzo incontrò Papa Eugenio IV per consegnargli mappe geografiche (le stesse che vennero poi affidate a Colombo permettendogli di «riscoprire» l’America), studi di astronomia, di matematica, di genetica, di ingegneria civile e militare, dipinti e opere d’arte. Un patrimonio artistico e scientifico che, secondo Menzies, stimolò Leonardo da Vinci, Galileo Galilei, Niccolò Copernico, Paolo Toscanelli, Nicola Cusano e Leon Battista Alberti nelle rispettive ricerche, e permise al Rinascimento di fiorire proprio in Italia. Purtroppo, non è rimasta alcuna traccia di tutti questi sbarchi perché i rivolgimenti interni alla Cina dell’epoca annullarono ogni anelito espansionistico, e quando le navi di Zheng He fecero ritorno, il Paese era interessato esclusivamente a rafforzare il proprio isolazionismo: venne ordinata la distruzione di ogni memoria di missioni e contatti con il mondo esterno, furono vietate nuove partenze, la costruzione di nuove imbarcazioni, e bandito il commercio con l’estero.
In Occidente queste tesi sono state fortemente criticate e Menzies è stato bollato come un aspirante storico presuntuoso oltre che poco affidabile. Ma a Pechino le sue tesi hanno avuto un successo tale da spingere il Partito comunista a finanziare successive ricerche sulle avventure marittime della Cina del ’400. Del resto, se la Cina riuscisse a dimostrare che Menzies ha ragione potrebbe chiedere all’Occidente di riscrivere la storia e, soprattutto, ricostruire l’immagine della Cina di ieri come quella di una grande potenza poco interessata alla colonizzazione ma predisposta a condividere la propria ricchezza economica e culturale con il resto del mondo. Un po’ come la Cina «pacifista e armoniosa» di oggi sta cercando di fare in Asia e altrove. Ecco perché la stampa nazionale concede molto spazio a scoperte come quella di Qin Dashu, professore ordinario presso l’Università di Pechino. Il team di archeologi da lui guidato avrebbe infatti ritrovato in Kenya delle monete di metallo attraversate da una fessura quadrangolare. Sulle monete sarebbe ancora visibile l’iscrizione «Yong Le Tong Bao», (letteralmente, «il tesoro circolante di Yong Le»), l’imperatore – il cui vero nome era Zhu Li – che fece coniare le monete tra il 1403 e il 1424, gli stessi anni in cui Menzies ha concentrato le sue ricerche. «Si tratta di spiccioli che potevano essere trasportati solo dagli emissari dell’imperatore», spiega il professore di Pechino, «quindi la loro presenza in Kenya dimostra che i cinesi sono arrivati in Africa molto prima di Vasco de Gama». L’Università di Pechino ha speso tre milioni di dollari per finanziare le ricerche di Qin Dashu e per analizzare il dna degli abitanti del villaggio in cui sono state ritrovate le monete, scoprendo che molti di loro, effettivamente, hanno lontani parenti cinesi.
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