Formiche cinesi e cicale americane: prove di convivenza. La celebre favola di Esopo ci racconta di una sostanziale divaricazione tra lo stile di vita e l’approccio alla realtà da parte della formica e della cicala, ma forse in questo primo scorcio del XXI secolo la formica (Cina) e la cicala (Stati Uniti) potrebbero riuscire a trovare un modus vivendi comune.
Tale almeno appare una delle ipotesi più affascinanti che è cominciata a circolare successivamente all’ascesa di Barack Obama alla guida degli Stati Uniti e in particolare durante il recente G20 tenutosi a Londra. Il vertice ha spinto infatti non pochi osservatori a porre la questione della nascita di un futuro asse Pechino-Washington – stante la debolezza politica della UE – al quale la Cina ha guardato con favore per anni, al fine di contrastare l’unilateralismo della precedente amministrazione americana.
Oggi, finita l’era di Bush, nuove prospettive si aprono indubbiamente sul piano della possibile cooperazione globale tra i due paesi. Del resto, il leader cinese Hu Jintao ha recentemente sottolineato a Londra l'importanza della cooperazione globale e dello sviluppo comune. In occasione del G20 ha ribadito l’impegno della Cina popolare a fare la propria parte per contribuire al superamento della crisi economica mondiale, confermando la politica di apertura e il no al protezionismo, ma mettendo contemporaneamente l'accento sull’inderogabile esigenza di promuovere uno sviluppo economico "equilibrato", nel cui ambito vadano rispettate le diversità insite nei singoli modelli di sviluppo ("socialismo con caratteristiche cinesi"). E nell’incontro tenutosi a New York a inizio aprile, tra il Consigliere di stato Liu Yandong e Henry Kissinger, il primo ha messo in luce come per Pechino sia molto importante promuovere la cooperazione bilaterale "in tutti i settori possibili", mentre l’ex Segretario di stato ha ricordato che in un mondo sempre più interdipendente il positivo andamento dei rapporti sino-americani rappresenti oggi un elemento fondamentale.
Tuttavia, le nuove potenzialità che si aprono sono oggettivamente contraddette dal permanere di visioni alquanto diverse su varie questioni, a cominciare da quelli che Pechino considera "problemi strettamente interni" quali il futuro di Taiwan e il nodo del Tibet, una ferita – questa ultima – riapertasi in tutta la sua gravità in occasione dei Giochi Olimpici e durante le stesse giornate del G20. Proprio il modo con cui l’Occidente (o parte di esso) avrebbe "sfruttato" il momento delicato della preparazione e dello svolgimento delle Olimpiadi, dando vita a quella che è stata definita la "demonizzazione della Cina", è stato oggetto di un recente bestseller (marzo 2009) dal significativo titolo "China is unhappy". Gli autori, esprimendo le istanze e i sentimenti "nazionalisti" più avanzati presenti nel paese – istanze e sentimenti non ufficialmente condivisi dal governo cinese ma senza dubbio radicati nella sensibilità popolare -, sottolineano la diffusa e profonda irritazione di molti cinesi per come lo sforzo compiuto nel 2008 dal proprio paese sia stato trasformato dall'esterno in uno strumento di derisione e di umiliazione. Le critiche più aspre sono rivolte in particolare agli Stati Uniti, il cui "modello" è ridicolizzato e definito come un qualcosa dal quale "non si possono che imparare cose negative". Ovviamente, queste sono posizioni estreme, ma non è certo un caso che qualche settimana fa, nel corso di una visita ufficiale in Messico, Xu Jingping, uno dei massimi leader cinesi e tra i più autorevoli candidati a succedere a Hu jintao, abbia da una parte enfatizzato l’importanza della cooperazione internazionale ma abbia dall’altra criticato l’attitudine dell’Occidente a puntare sempre l’indice contro la Cina, paese impegnato a sviluppare il proprio impegno internazionale e che al di fuori dei propri confini non sta certo tentando di "esportare la rivoluzione o la povertà".
Riproduzione riservata