Il drago e i leoni. In Cina, il drago è da sempre considerato il simbolo del potere e della forza imperiale; in Tibet, due leoni delle nevi – simbolo di gioia e di una mente libera dal dubbio - spiccano impavidi nella bandiera che richiama lo spirito storico di autonomia ed indipendenza del Tibet. E’ difficile ipotizzare se mai che il drago e il leone delle nevi, entrambi espressione di civiltà antiche ed orgogliose identità, potranno trovare un modo di convivere pacificamente nella giungla del futuro. Le vibrate proteste di Pechino alla decisione di Barack Obama di ricevere il Dalai Lama alla Casa Bianca il 18 febbraio sembrerebbero proprio far ritenere di no, anche se la storia dei rapporti difficili tra la Cina e il Tibet è ricca di frequenti colpi di scena e di eventi storici controversi. La liberazione/invasione del Tibet nel 1950-51 da parte delle truppe comuniste cinesi avvenne infatti nel segno di una sostanziale continuità con le posizioni politiche più volte espresse dal precedente governo nazionalista cinese (Chiang Kai-shek), che pure era amico di Washington, per il quale il Tibet era indiscutibilmente parte della Cina. L’“Accordo in 17 punti per la liberazione pacifica del Tibet” - firmato nel 1951 dalla delegazione cinese e da quella tibetana e favorito dall’azione mediatrice dell’India -, fu considerato presto sconfessato dal Dalai Lama in quanto firmato sotto l’occupazione militare cinese. Al contrario, Pechino ha sempre ritenuto giuridicamente valido tale accordo, che riconosceva il Tibet come parte integrante della Repubblica popolare cinese e prevedeva l’accettazione da parte cinese di punti importanti quali l’autonomia regionale e il rispetto della tradizione linguistica e culturale e della libertà religiosa. Quasi sessanta anni sono trascorsi, sia la Cina che il Tibet sono cambiati profondamente, ma i nodi ancora da sciogliere restano in gran parte quelli emersi in quei drammatici mesi del 1950-51.
Più recentemente (rispettivamente nel settembre 2008 e nel marzo 2009) Pechino ha reso noto i testi di due libri bianchi su “Protezione e sviluppo della cultura tibetana” e “Cinquanta anni di riforme democratiche in Tibet”, che confermano ed esplicitano ulteriormente i punti essenziali della visione cinese. Nei documenti, viene negata innanzitutto con forza l’idea dell’esistenza di un “genocidio culturale” in Tibet e si pone in evidenza, al contrario, l’enorme sforzo compiuto nel corso degli anni in termini di risorse finanziarie e di sostegno concreto alla protezione e promozione della cultura tradizionale tibetana e allo sviluppo di un moderno sistema educativo, scientifico e culturale nella regione. Si ricorda poi che prima del 1949 il Tibet era “una società caratterizzata da una servitù feudale guidata da una teocrazia” e si rivolgono pesanti accuse al Dalai Lama e alla sua “cricca” e alle “forze anti-cinesi in Occidente”, accusandole di cospirare per mantenere stagnante la cultura tibetana e in uno stato arretrato la regione, “mentre essi godono dei frutti della moderna civiltà e cultura”. Posizioni decisamente divergenti sussistono anche sulla stessa applicazione concreta del concetto di “autonomia”, che sembra oggi uno dei pochi punti di relativa convergenza tra i protagonisti in campo. Infatti, la Regione autonoma del Tibet oggi comprende solo una parte (meno della metà: U-Tsang e parte del Kham) dei territori che culturalmente sono identificati come Tibet (oltre a questi, l’altra parte del Kham e l’Amdo) dalla Amministrazione centrale tibetana, ossia il governo tibetano in esilio insediato da ormai 50 anni a Dharamsala in India. Le altre parti del “Tibet culturale” sono infatti state annesse ad alcune province cinesi confinanti con la Regione autonoma. Narra una antica fiaba tibetana che su di una alta montagna vivevano due saggi: seduti a gambe incrociate nella neve, trascorrevano i giorni e i mesi a meditare e a pensare all’uomo e al mondo. Il più anziano dei due insegnava al più giovane che nell’antichità vi erano stati uomini buoni, ma che poi molti erano diventati sordi alla saggezza: cercavano la salvezza dove non c’era, come uno che cerchi una coppa d’acqua fresca che ha appena gettato nel mare. Bisognerà forse sperare in qualche saggio del ventunesimo secolo perché il problema del Tibet sia risolto in modo pacifico e definitivo?
Riproduzione riservata