Nel 2013 la vittoria di Renzi come leader del Pd fu celebrata come l’alba di una nuova era. Bella o brutta, poco importava. Era chiaro a tutti che niente sarebbe stato più come prima. Aveva conquistato il partito e si apprestava a controllarlo con l’innesto dei suoi pochi uomini (e donne) di fiducia. Un giglio magico impiantato a Roma, tra Palazzo Chigi e Largo del Nazareno. Soprattutto, aveva detronizzato la Ditta e archiviato/rottamato una larga fetta della classe dirigente ancora intrappolata in un piccolo mondo antico, fatto di comodi berlusconismi, gioiose macchine da guerra e poca lucidità nell’interpretare una società in profondo mutamento.

Era l’epoca del Renzi futurista e velocista. Di corsa e veloce, quando niente e nessuno sembrava in grado di fermarlo. E invece, a quattro anni di distanza, ci troviamo in un mondo totalmente differente. Nel mezzo, c’è stato di tutto: #enricostaisereno, il mitico 40% alle europee, la (rinnegata) Buona scuola e il (rivendicato) Jobs Act, le ministre ricostituenti e le banche tracollanti, fino alla bruciante sconfitta nel referendum costituzionale. Con il 4 dicembre si è chiusa la porta sul primo renzismo, quello distruttivo (o rottamatore), e con le primarie del 30 aprile si è aperto il portone per l’avvento del secondo renzismo. Non sappiamo se più riflessivo e costruttivo, ma sicuramente diverso dal primo.

A detta di tutti, esperti ed elettori, questa volta non abbiamo assistito a primarie esaltanti. Poca emozione e scarsa suspense. Queste primarie low profile hanno avuto un sapore diverso, non prevedevano una conquista, ma una conferma. I gazebo, le primarie, gli iscritti e i simpatizzanti servivano per fornire un’iniezione di fiducia a Renzi e al Pd, ma soprattutto per sanare la ferita del 4 dicembre e rimuovere il trauma della scissione. In altre parole, con queste primarie si voltava pagina.

E forse il trucco è riuscito. Adesso Renzi è solo. Lui e il suo partito. Anzi, lui è il suo partito. A immagine e somiglianza, come in un curioso gioco di specchi. Niente più contestazioni interne o fronde ostili. Renzi e il Pd si sono reciprocamente adattati, accettati, metabolizzati e digeriti. Percepito come corpo estraneo, ora Renzi e il suo partito si pigliano e si somigliano. Vediamo come e perché.

Il primo dato che va considerato è sicuramente quello della partecipazione. Il saldo partecipativo è negativo. Ed è innegabile. Questo calo può essere interpretato come un segnale di crisi delle primarie, non più in grado di suscitare interesse e attivare la partecipazione dei simpatizzanti. È possibile che dopo oltre dieci anni di onorato servizio l’effetto novità sia scemato e sia subentrato il rischio dell’usura. Nulla di strano (tranne i troppi, per nulla disinteressati de profundis intonati da molti commentatori politici in crisi di argomenti).

Tuttavia questa contrazione partecipativa andrebbe forse interpretata all’interno di una cornice più ampia, per dare conto anche delle caratteristiche di questi selettori che – stoici – hanno resistito alla tentazione di un week-end lungo. Alla fine, la partecipazione si è ristretta ai fedelissimi. Allo zoccolo duro che è rimasto nel partito. I dati di Candidate & Leader Selection rivelano una tendenza piuttosto chiara: le primarie hanno sempre meno capacità di attrarre matricole (soprattutto giovani), ma questo non è necessariamente un male, in particolare nel breve periodo. Queste particolari votazioni assolvono infatti a una funzione tutt’altro che secondaria: offrire un’opportunità di partecipazione a iscritti e simpatizzanti altrimenti privi di altri strumenti di efficace partecipazione politica. Primarie a metà fra rito partecipativo e mito fondativo. Partecipazione e identità. L’abbiamo già scritto e studiato altrove: sono i “veterani” delle primarie a comporre largamente il bacino di selettori PD. Questo significa, in breve, che le primarie sono uno spazio allargato, ma pur sempre di parte e di partito. Uno spazio aperto, certo. Ma a scendere in campo sono (sempre più) i fedeli, o i tifosi, che riconoscono nelle primarie il loro momento identitario e non mancano l’appuntamento.

Anche da un punto di vista socio-demografico, troviamo alcune conferme di tendenze già rilevate in passato. Il popolo delle primarie ha i capelli grigi – nota giustamente Diamanti. Oltre il 60% ha più di 55 anni. Non è una novità, anzi sappiamo ormai da tempo che i partecipanti alle primarie possiedono un identikit ben preciso: anziani, istruiti, molto interessati alla politica. E non è cambiato molto in questi ultimi quattro anni. Certo, i selettori 2017 sono ancora più anziani rispetto al passato. Perché anche loro sono cresciuti con le primarie, fin dai tempi dell’Ulivo, del (primo) Lingotto, dell’Unione disunita e delle varie Leopolde. Così anche Dorian Renzi si rispecchia nell’immagine ingiallita, o ingrigita (grey), del popolo delle primarie. Anche per questo il royal baby toscano – come lo hanno soprannominato i suoi italici adulatori (ora tutti ordinatamente en marche) – non sfonda (più) fra i giovani. Lì la golden share adesso è tutta in mano a Grillo, al web, al M5S. Jean-Jacques (Rousseau) batte Bob (Kennedy) a tavolino. Del resto, l’ha sperimentato sulla sua pelle durante la partita del referendum e per un soffio non si è giocato l’intera carriera. Il suo tallone d’Achille è proprio quella questione generazionale che, in un paese fermo al palo come il nostro, fa rima con questione sociale. L’appello alla rottamazione era efficace, ma ha funzionato poco e per poco. Ha convinto i votanti più anziani, quelli che non hanno più tempo (o forse sono semplicemente stanchi) per aspettare un’altra – l’ennesima – promessa di cambiamento. Mentre non riesce a convincere chi ancora ha tutta la vita davanti e non è disposto ad accontentarsi di quel che passa il convento. Anche di questo Renzi dovrà tener conto in futuro, soprattutto se – come è evidente –la partita si sposterà repentinamente sul campo largo delle elezioni politiche. Non più una amichevole giocata in casa, ma una partita in trasferta con regole del gioco ancora in parte da scrivere.

Però, è osservando il profilo politico che si comprende meglio che cosa è successo (e sta succedendo) dentro il Pd di Renzi. La sorpresa è che c’è una grande aderenza fra Renzi, il suo popolo di sostenitori e il profilo generale del Pd. Si somigliano, dicevamo all’inizio. I selettori delle primarie sembrano meno di “sinistra” che in passato, più vicini a posizioni moderate e (quasi) centriste che effettivamente Renzi interpreta efficacemente. Come se fosse madame Bovary, oggi il Pd c’est lui. Renzi non è più quel corpo esterno, tollerato perché, pur turandosi il naso, pareva essere l’unica via per vincere le elezioni. Non a caso fra le principali motivazioni di voto che forniscono i suoi elettori si trova, proprio al primo posto, l’apprezzamento per le sue caratteristiche personali. È questo il leader che vogliono, coi suoi pregi e, forse, con qualche difetto in meno. Anche la prospettiva elettorale e l’idea che Renzi più degli altri sia in grado di vincere le elezioni è importante, nella decisione di voto, per il 21% degli intervistati. Non proprio una motivazione banale. Anzi, una scommessa ragionata e razionale. E infine c’è il popolo delle primarie, che magari usa anche Twitter e apprezza di poter pagare da casa i bollettini postali, ma non per questo disdegna la partecipazione offline, faccia-a-faccia. Pare che per alcuni sia un po’ retrò. Dimenticano che il vintage (quello vero) non passa mai di moda.

Le primarie sono state, dunque, una tappa di un percorso iniziato all’inizio di dicembre, quando anche Renzi si è accorto d’aver perso il tocco magico del campione di consensi. In prospettiva ci vedono le elezioni. Ma nel mezzo ci sono le incognite di una legge elettorale non scritta, partiti alleati o pseudo-alleati irrequieti e un delicato rapporto con il governo. C’è poi il partito. Voluto, sedotto e abbandonato. In ogni caso, da trattare con riguardo (dicono che sbagliando si impara, chissà...). 

 

[“Questioni Primarie” è un osservatorio sulle primarie. È un progetto di Candidate & Leader Selection, realizzato grazie alla collaborazione con l’edizione online della rivista “il Mulino” e il coinvolgimento dell’Osservatorio sulla Comunicazione Pubblica e Politica dell’Università di Torino. Qui i numeri completi di “Questioni Primarie” 2017.]