Negli ultimi decenni, la paternità come fenomeno sociale, oggetto di studi e ricerche, è stata esplorata da molti punti di vista, parallelamente all’emergenza di discorsi – specialmente nel mondo occidentale – sui cosiddetti “nuovi” padri, lontani dal modello autoritario del passato e desiderosi di partecipare attivamente alla vita dei propri figli.

Guardando alla paternità da un punto di vista di genere, gli studi si sono concentrati in particolare sul suo essere esperienza specificamente maschile e riflettono sui significati di genere legati alla transizione alla genitorialità e al coinvolgimento con i figli, nell’ottica di una possibile trasformazione nelle costruzioni della maschilità. Numerose ricerche hanno messo in evidenza come i cambiamenti nei modi in cui si pensa e si mette in pratica la paternità riflettano cambiamenti a livello meso e macro nelle relazioni fra i generi.

Nell’ambito di questa riflessione, alcuni/e studiosi/e hanno guardato in particolare al coinvolgimento dei corpi maschili nella cura materiale come elemento fondamentale per una ri-significazione delle maschilità, potenzialmente nella direzione di una messa in discussione degli squilibri di potere fra i generi.

Il coinvolgimento dei padri nella cura materiale dei figli è un elemento fondamentale per una ri-significazione delle maschilità nella direzione di una messa in discussione degli squilibri di potere fra i generi

Anche nel contesto italiano gli studi dedicati ai padri e alla paternità sono molti e sfaccettati e dipingono un quadro di contraddizioni fra il modello di “buon padre procacciatore di reddito”, ancora preponderante, e un desiderio di partecipazione alla cura materiale. Tuttavia, aspetti come le pratiche quotidiane di cura dei bambini e delle bambine, in particolare quando sono piccoli/e, il loro incorporamento di genere e il loro ruolo nella costruzione della paternità hanno finora ricevuto scarsa attenzione.

A partire dalla ricerca sociologica "Do you guys take showers with your children?": Gendered Embodiment and the Legitimation of Italian Fathering Practices, condotta in Piemonte con interviste e focus group a padri italiani di bambini/e di età inferiore ai 3 anni, questo contributo vuole avviare una riflessione anche su questi temi.

I risultati della ricerca fanno luce su due aspetti in particolare: il legame fra pratiche di cura materiale – come vestire, lavare, cambiare il pannolino, dare da mangiare e mettere a dormire – e la costruzione della relazione con i/le figli/e, da un lato; dall’altro, i rischi insiti nell’attraversare i confini del corpo.

Gli intervistati hanno raccontato la loro partecipazione alla cura materiale e il contatto fisico con i/le propri/e figli/e in tre modi. Alcuni hanno descritto le attività di cura in cui erano coinvolti senza esplicitamente menzionare il contatto fisico. Altri hanno parlato sia del loro coinvolgimento nelle pratiche di cura, sia del loro modo di esprimere affetto in modo fisico, con baci e abbracci, ma senza sovrapposizioni. Altri ancora hanno sovrapposto e intrecciato, nei loro racconti, le pratiche di cura e il contatto fisico tra loro e i/le bambini/e: nelle loro parole, i contatti corporei fra padre e figlio/a durante la cura portavano con sé una forte carica emotiva e affettiva. Per questi uomini, la cura è un’attività che contribuisce a definirli come genitori, che significa la relazione con i/le loro figli/e e che veicola affetto e coinvolgimento emotivo.

Alcune pratiche, però, mettono in luce l’esistenza di confini difficili da attraversare. Il primo confine espresso dai partecipanti alla ricerca è stato quello che divide la paternità e la maternità, in ragione della grande potenza culturale della naturalizzazione del legame madre-figlio/a. Questo legame, infatti, viene descritto come fortemente incentrato sugli aspetti biologici e strettamente corporei della maternità – la gravidanza e il parto – e costruito in particolare sulla centralità dell’allattamento al seno. Questa rilevanza attribuita alla corporeità contribuisce a contraddistinguere l’esperienza di maternità come “naturale” e dunque ad assegnare alle madri il ruolo di principali responsabili ed esperte della cura dei/delle figli/e.

Attraversare questo confine, come fanno ad esempio quei padri che nutrono i figli e le figlie al biberon con formula o latte materno tirato (spesso con la mediazione o il “permesso” delle madri), porta con sé il rischio di vedere “femminilizzata” la propria esperienza di paternità. È il caso di Massimiliano (alias), che agli occhi di suo padre, che lo guarda allattare il suo bimbo di due mesi, è proprio “una bella mamma”, e che descrive se stesso come un “babysitter maschio”. Questo caso fa luce anche sull’importanza del linguaggio per definire le pratiche di paternità in relazione alla maschilità.

In italiano, la diffusione di neologismi come “mammo” mette in evidenza proprio la difficoltà a immaginare la possibilità che anche i padri possano mettere in pratica la cura con la stessa intensità che è richiesta alle madri (a loro volta oggetto di forti pressioni e sorveglianze perché la maternità sia l’esperienza “totalizzante” che la vulgata, ma anche gli esperti, descrivono). D’altra parte, esiste anche un secondo confine: quello che presidia la maschilità intesa nelle sue caratteristiche egemoniche, che descrivono i corpi maschili come inviolabili, aggressivi e sessualmente attivi. Per questo, la vicinanza fisica e il contatto con i corpi dei/delle figli/e sono temi controversi, specialmente quando vengono discussi in contesti omosociali, come un focus group.

Discorrendo tra loro delle esperienze condivise di fare la doccia o il bagno nudi con i propri bambini (e specialmente le proprie bambine), alcuni padri hanno lavorato a decostruire quel confine, innanzitutto estendendo il margine di ciò di cui si può parlare con altri uomini, e poi mettendo in discussione il vincolo di intoccabilità dei corpi maschili, che invece possono, apparentemente, condividere anche contatti intimi con i/le bambini/e. Tale decostruzione ha richiesto, però, alcune strategie: l’uso dell’ironia e dell’umorismo, in primis, potenti strumenti di costruzione della complicità; e il riferimento, come per l’allattamento, al ruolo delle madri nell’autorizzare tale contatto.

I padri in questa ricerca, al contrario di quelli descritti nelle ricerche internazionali sui padri (eterosessuali) coinvolti nella cura, sono “tradizionali” nel modo in cui dividono il lavoro retribuito e non retribuito con le loro compagne: sono tutti lavoratori a tempo pieno, alcuni sono gli unici procacciatori di reddito in famiglia, e quasi nessuno ha preso congedi o rivisto significativamente il proprio impegno lavorativo. Eppure, nei racconti delle loro routine quotidiane, è possibile individuare alcuni indizi di come la cura materiale potrebbe trasformare i significati e le aspettative della paternità nella direzione di una maschilità accudente, ma anche intorno alle criticità e alle resistenze che ostacolano questo percorso di trasformazione.

Le pratiche di cura sono attività e comportamenti che coinvolgono i corpi e che, anziché essere espressioni di capacità innate, possono essere appresi: che cosa succede quando lo fanno gli uomini?

Questa e altre ricerche hanno mostrato, infatti, come le pratiche di cura siano insiemi di attività e comportamenti che coinvolgono i corpi e che, anziché essere espressioni di capacità innate, possono essere appresi: ma cosa succede quando lo fanno gli uomini?

Secondo le testimonianze raccolte nella ricerca, da un lato condividere le attività di cura per gli uomini può significare apprezzare il lavoro di cura in generale, rivedere i confini dei propri corpi, e riconoscere il carattere relazionale e interdipendente della cura. Dall’altro lato, l’incorporamento di genere degli uomini, inserito in un ordine di genere che si fonda su relazioni gerarchiche tra uomini e donne (e tra diverse maschilità) e che attribuisce culturalmente ai corpi maschili caratteristiche come aggressività e potenza sessuale, implica che certe pratiche di cura corporea rischiano di essere guardate con sospetto. In questo senso i corpi maschili in contatto intimo e accudente con i corpi dei/lle bambini/e sono interpretati socialmente e culturalmente come problematici. Non perché siano “naturalmente” incapaci di offrire cura, ma perché il loro lavoro di cura, quando coinvolge il corpo, si trova in tensione con la costruzione culturale della maschilità. È questa tensione, o le reazioni all’innovazione che questa tensione porta con sé, che sollevano dubbi sulla legittimità di tale capacità di cura.

Ecco allora la rilevanza del genere emergere con evidenza, e in alcune pratiche più che in altre: non (o non solo) perché le madri non siano disposte a permettere quello sconfinamento – anzi, come emerge dalla ricerca, sono spesso alleate dell’innovazione, ma perché alcune pratiche più di altre mettono in luce la mancanza di strumenti di legittimazione culturale, e specialmente quello della naturalizzazione del legame fisico tra i corpi degli uomini adulti e quelli dei/lle bambini/e.