La vicenda delle inchieste sulla gestione del bilancio della Lega Nord segna senza dubbio un punto di non ritorno nella controversa storia del rapporto tra gli italiani e i partiti politici. Ma i fatti di questi giorni costituiscono soltanto una cartina al tornasole: il sistema, composto da una classe politica complessivamente insensibile a quella questione morale che pure non ha mai abbandonato l’agenda pubblica a partire dal 1992 e da regole del gioco assolutamente incongruenti tra loro, non è in grado di sostenere un’autoriforma rigorosa della politica.
Gli inutili “io l’avevo detto” dei vari campioni di moralità distribuiti – sia pure in modo non proporzionale – nei vari settori del sistema partitico hanno la stessa forza costruttiva delle urla indignate dei paladini dell’azzeramento politico. Di fronte a questo stallo, benché indebolite da un’ondata di rifiuto che oggi mette in ridicolo anche dei veri fuoriclasse del populismo come i politici della Lega, sono ancora le parole di alcuni di essi a esprimere i concetti più efficaci: pulizia, pulizia, pulizia. Come non essere d’accordo con questo semplice concetto che poi significa “…riportiamo la bellezza e lo splendore nei nostri partiti”? Ma quale tipo di pulizia è oggi praticabile, senza corrodere i meccanismi vitali di una qualsiasi organizzazione, e senza interrompere i processi democratici che passano attraverso tali organizzazioni?
Le questioni collegate al nostro dilemma sono tante. Si parla soprattutto di regole univoche e “dure” sul finanziamento pubblico della politica. Si tratta di obiettivi logici e auspicabili, che potranno essere raggiunti grazie al combinato disposto della volontà di un governo svincolato da obblighi verso le clientele politiche e dal buon senso dei leader dei partiti che intendono ancora proporsi di fronte agli italiani. Ma sappiamo anche che questo nodo è in realtà il più complesso da sciogliere. Il sistema di finanziamento che dovrà uscire dalla fase di riordino non potrà essere che “misto”, visto che la nostra è una delle democrazie in Europa col più basso livello di donazioni formali ai partiti. Inutile pensare a soluzioni troppo lontane: una riduzione seria di benefit e rimborsi, pagabili con adeguate certificazioni “a pie’ di lista” e vagliati da una autorità, e dei seri tetti alle spese elettorali costituirebbero già degli esiti preziosi.
Meglio allora concentrarsi sugli obiettivi di medio periodo, che sono almeno due: trasparenza organizzativa e selezione dei migliori. Ciò che ha connotato gli ultimi scandali, dalla Regione Lombardia al caso Lusi fino all’esplosione del caso Lega Nord, è il livello incredibilmente grossolano di controllo da parte dei vertici partitici rispetto ai custodi delle risorse. I “tesorieri”oggi all’onore delle cronache appaiono come manager (diciamo così) chiamati a organizzare essenzialmente clientele politiche, se non affari esclusivamente personali di una ristretta cerchia di leader, ma non sembrano minimamente all’altezza di un ruolo politico e strategico che era invece cruciale nella Prima Repubblica, come alcune epiche figure della partitocrazia – da Citaristi a Balzamo, solo per fare due esempi – mostrarono ai giudici di Mani Pulite venti anni or sono.
Il secondo aspetto da chiarire è quello della selezione. I partiti possono organizzarsi secondo principi e modelli diversi. Ma in un mondo in cui la politica è soprattutto business per i suoi protagonisti (e non solo per loro) devono mostrare di poter fare tutto il possibile per selezionare le migliori candidature in accordo con un dato modello. Dall’esplosione di Tangentopoli a oggi, abbiamo permesso a partiti vecchi e nuovi di reclutare candidati e leader senza tener conto di alcun tipo di vincolo, né morale (per esempio guardando alla storia e ai potenziali conflitti di interesse dei candidati) né tanto meno procedurale (per esempio, chiedendo ai partiti uno sforzo per rendere il più aperta possibile la consultazione sulla scelta di candidati a cariche monocratiche).
Dunque, lo stato di salute dei partiti italiani e la loro credibilità pubblica sono davvero preoccupanti, non tanto per il costo elevato che essi ancora rappresentano per una comunità vessata dalla crisi e da scelte politiche inevitabilmente severe. Ciò che rende i partiti malati e poco attendibili è la mancanza totale di una loro nuova definizione condivisa nella società che li riporti – come vuole la Costituzione e come qualche saggio ribadisce di tanto in tanto – a esercitare il metodo democratico.
Se questo è il punto centrale, inutile costruire nuovi, ulteriori apparati concettuali per sostituire i partiti con qualcosa – movimenti, fondazioni – che finirebbe per assumerne gli stessi difetti. Inutile aderire a ulteriori appelli ispirati al sentimento antipartitico. Utilissimo, invece, chiedere la legge organica di disciplina dei partiti politici che la Costituzione permette proprio con l’articolo 49, quello che individua nel metodo democratico la via maestra per la competizione tra e dentro i partiti. Convinciamoci del fatto che, se questa norma non serviva ai partiti di ieri, quelli di domani potranno appoggiarsi a essa per fissare i minimi assetti di trasparenza organizzativa, obbligo di statuti e norme etiche, regole fondamentali per la selezione delle candidature alle cariche monocratiche. I testi di riferimento ci sono e sono validi. Si tratta di battere un colpo per restituire alla politica dei partiti la reputazione che è necessaria e, sulla base di questa, riprendere le altre riforme, dal finanziamento alle discipline elettorali, che interessano la competizione politica.
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