Lo scorso 15 dicembre una fonte anonima ha rivelato al «Washington Post» che in una riunione tenutasi il giorno precedente al Center for Disease Control and Prevention (Cdc) di Atlanta, alcuni funzionari avrebbero chiesto agli analisti impegnati a compilare il budget 2019 di astenersi dall’utilizzare sette parole: «vulnerable», «entitlement», «diversity», «transgender», «fetus», «evidence-based» e «science-based». In qualche caso, tuttavia, agli analisti sarebbero state proposte soluzioni alternative. Al posto di «evidence-based» e di «science-based», ad esempio, pare sia stato suggerito loro di utilizzare la frase «Cdc bases its recommendations on science in consideration with community standards and wishes». In altre parole, le raccomandazioni del Cdc prendono in considerazione sia i risultati scientifici sia i principi e le richieste della comunità. Come se scienza e opinioni fossero sullo stesso piano.
Nonostante un portavoce del Dipartimento della salute statunitense (Hhs), l’organo dal quale dipende il Cdc, si sia immediatamente affrettato a dichiarare che la notizia era stata riportata in modo errato; e nonostante la direttrice dello stesso Cdc abbia affermato che non esistono parole proibite, ce n’è abbastanza per allarmarsi. Sia perché le due smentite non coincidono (la lista di parole proibite esiste oppure no?) sia perché, se esistesse, secondo molti scienziati e ricercatori statunitensi questa avrebbe un unico scopo: cancellare intere categorie di persone, di malattie, e di politiche di prevenzione e assistenza dal prossimo bilancio federale. Secondo altri – la «National Review» ad esempio – si ricorrerebbe alla lista solo per mitigare l’impatto che parole come “transgender” avrebbero sui membri più conservatori del Congresso. Detto altrimenti, ciò che a molti appare una censura sarebbe un modo per placare gli animi dei repubblicani e promuovere l’approvazione del budget in tempi brevi. Se lo scopo della presunta lista fosse davvero questo, però, si direbbe che lo Hhs e il Cdc (oggi guidati entrambi da funzionari nominati dal presidente Donald Trump) considerino i congressmen repubblicani non solo esaltati, ma anche ingenui a sufficienza per essere circuiti con un’operazione di cosmesi linguistica. Questa motivazione non appare convincente per diverse ragioni. La più rilevante per il nostro discorso è la seguente: possibile che la lista sia stata compilata per ammorbidire proprio coloro che della cosmesi linguistica a scopi di propaganda politica sono stati i maestri?
Negli ultimi vent’anni i repubblicani hanno utilizzato la lingua con grande sagacia. Il linguista George Lakoff, per esempio, lo ricordava ai lettori di «Repubblica» in un’intervista del 2016 dedicata alla campagna presidenziale in corso. In quell’occasione Lakoff ha esemplificato la strategia comunicativa del Partito repubblicano citando, tra gli altri, il caso di «riscaldamento globale». Il tramonto di questa espressione in favore di «cambiamento climatico», ha spiegato Lakoff, non è stato casuale, bensì frutto di una scelta (elaborata dal linguista cognitivista Frank Luntz), fondata su considerazioni di natura sia terminologica sia concettuale: con un cambio di parole apparentemente impercettibile siamo stati incoraggiati a trasformare un fatto innescato dai nostri comportamenti errati (il riscaldamento) in un inevitabile processo naturale (il cambiamento). I presupposti e le aspettative politiche che derivano dal cambio di frame sono evidenti: se è naturale perché opporsi?
Seguendo Lakoff, diventano più chiari sia gli scopi della presunta lista di parole proibite emanata dal Cdc sia i comportamenti linguistici del presidente Donald Trump.
Come parla Trump? Una ricerca presentata all’Università di Birmingham nel luglio del 2017 ha mostrato che l’odierno presidente degli Stati Uniti si affida a parole e frasi molto brevi, a espressioni e costruzioni prevedibili, a un vocabolario ristretto in cui abbondano i verbi e scarseggiano gli indicatori primari del ragionamento complesso: i sostantivi. A fine anno il sito dictionary.com ha contribuito a definire la questione con una classifica dei dieci termini più usati dal presidente statunitense, rilevando così che nella lingua di Trump regnano gli aggettivi superlativi. Riassumendo: la lingua di Trump esprime concetti molto semplici con un’enfasi e un coinvolgimento che vengono percepiti come indici di sincero trasporto e spontaneità. Nulla che non si sia già visto altrove. E tuttavia, forse perché si tratta del presidente degli Stati Uniti e forse perché l’oratoria è stata da sempre un elemento essenziale del progetto politico statunitense, è sorprendente che una personalità politica linguisticamente tanto povera e prevedibile abbia mantenuto intatta la fiducia del 35% dei votanti dopo un anno che alla gran parte degli osservatori appare disastroso.
Per un’analisi più approfondita degli aspetti linguistico-cognitivi che stanno dietro a questa tenuta è opportuno rivolgersi proprio ai lavori di Lakoff. Qui basterà ricordare due eventi eloquenti dell’ultimo anno. Come «consolare» i suprematisti bianchi all’indomani dei violenti scontri avvenuti a Charlottesville dello scorso agosto, in cui un manifestante suprematista ha ucciso una manifestante antirazzista? Affermando che la responsabilità dei gravi fatti accaduti in città andava ascritta a entrambe le fazioni e che dunque anche la alt-left ha le sue colpe. Peccato che la alt-left non esista. E come condannare gli atleti neri che non si alzano in piedi quando in campo viene suonato l’inno nazionale? Definendoli degli ingrati. Dopo tutto quel che noi (i bianchi) abbiamo fatto per loro (i neri).
Il progetto politico di Donald Trump è reboante e al contempo sottile, tale e quale al suo stile linguistico-comunicativo. Nonostante i twitter compulsivi suonino a molti osservatori infantili, sgraziati e inquietanti, Trump sa come dire le cose giuste al momento giusto e soprattutto alle persone giuste (il suo 35%). E ha dimostrato di non aver bisogno delle imbeccate di Steve Bannon. Conosce il suo elettorato a sufficienza per centrare il bersaglio da solo.
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