Nonostante la vaccinazione sia stata prontamente indicata da tutte le istituzioni sanitarie, governative e sovragovernative, compresa l’Oms, come la via per uscire dalla pandemia, l’adesione alla campagna vaccinale incontra ostacoli, con percentuali variabili da Paese a Paese. In Italia, così come altrove, la popolazione di chi non si vaccina è stratificata e composita e comprende sia chi è irriducibilmente contrario perché crede a legami tra le case farmaceutiche e i poteri forti, sia gli esitanti, ossia coloro che ritardano la decisione di vaccinarsi rispetto alla finestra loro assegnata dal Piano statale per diversi motivi, non ultimo la paura di effetti collaterali immediati o dilazionati nel tempo. Alcune frange di irriducibili danno luogo a proteste, minacce e atti di violenza contro le istituzioni sanitarie e gli esperti che hanno testimoniato sui media a favore della vaccinazione.
Perché le campagne vaccinali delle istituzioni non funzionano come dovrebbero, anche in una situazione di emergenza come quella scatenata dal Covid-19? Perché esistono i no-vax e gli esitanti e come si possono convincere? Il fenomeno è complesso e indagabile da molti punti di vista. Da quello storico, la resistenza alla vaccinazione esiste da quando sono stati introdotti i primi vaccini, nell’Inghilterra della fine del Settecento. Una crisi recente nell’adesione alla vaccinazione pediatrica nel mondo occidentale e benestante si è poi riscontrata a partire dagli anni Novanta del secolo scorso – nel 1995 appariva su «Lancet» il famigerato studio a firma di Andrew Wakefield e altri sulla correlazione tra vaccinazione antimorbillo e autismo, studio poi ritrattato dalla rivista – e da allora comprendere e contenere i no-vax e gli esitanti è una priorità costante per le istituzioni che si occupano di salute pubblica.
Negli ultimi decenni, comprendere e contenere i no-vax e gli esitanti è stata una priorità costante per le istituzioni che si occupano di salute pubblica
La continuità storica del fenomeno di resistenza alla vaccinazione, nonostante ci siano differenze rilevanti di contesto nei vari episodi e nei vaccini proposti, suggerisce, anche se non prova, che esistono costanti esplicative. Nell’ultimo decennio la psicologia ne ha fornita una, ossia che i no-vax siano vittime di bias cognitivi, cioè errori sistematici o illusioni del ragionamento. I cospirazionisti tendono a cercare agenti e colpevoli in tutte le situazioni e non tollerano la casualità, una tendenza evolutivamente utile alla specie umana, ma che a volte porta a errori; gli esitanti sono vittime dell’effetto di conformità sociale e si comportano come chi è loro simile, all’interno di «bolle informazionali» rafforzate, nel caso contemporaneo, dai social media; i resistenti in generale hanno poca dimestichezza con il ragionamento logico e con la comprensione delle probabilità, e quindi dei rischi assoluti e relativi associati ai vaccini.
La forza di questa spiegazione, tuttavia, è anche la sua debolezza: siamo tutti vittime di bias cognitivi, sia i resistenti sia chi si vaccina, non capiamo le probabilità e i rischi relativi, viviamo nella Rete dentro a «bolle informazionali» per cui interagiamo sempre con chi la pensa come noi, cercando conferme a ciò di cui già siamo convinti, e siamo costantemente impegnati a screditare i pareri avversi. La differenza cognitiva tra pro-vax e no-vax diminuisce notevolmente se eliminiamo la frangia minoritaria dei cospirazionisti estremi.
Forse, dunque, non è l’irrazionalità la chiave di spiegazione del fenomeno. Alcuni studi contemporanei partono dalla stratificazione della popolazione resistente – che, come si è detto, non è uniforme – e individuano le variabili correlate con i vari atteggiamenti, dal rifiuto all’esitazione: l’aspirazione alla purezza, l’opposizione all’autorità, la valorizzazione dell’autonomia o della solidarietà e la fiducia nelle istituzioni. Proprio questa variabile, che non è solo psicologica ma relazionale, è stata recentemente indicata come una delle possibili chiavi di comprensione più generali del fenomeno no-vax.
I livelli di fiducia sono molto variabili e dipendono da fattori differenti nei vari contesti geografici e culturali (stato socioeconomico, scolarizzazione, affiliazione politica coincidente con quella dell’istituzione, credenze religiose), ma, all’interno di un singolo contesto, la polarizzazione fiducia/sfiducia ricalca più fedelmente la distribuzione tra pro-vax e no-vax rispetto a quella tra buoni e cattivi ragionatori. Inoltre, spiega almeno in parte alcune coincidenze storiche di manifestazioni anti-vacciniste e rivolte popolari contro i governi locali, nonché il fatto che il fornire informazioni sull’efficacia o la sicurezza dei vaccini non sia una strategia efficace, ma anzi controproducente sugli oppositori, dato che tale informazione viene considerata come proveniente da fonte non credibile, e non rassicura gli esitanti.
La fiducia è una relazione complessa, la cui analisi individua componenti epistemiche ed etico-valoriali: in tutte le nostre interazioni con il prossimo in cui abbiamo bisogno di delegare qualcosa che non vogliamo o possiamo gestire da soli, dalla riparazione di un elettrodomestico all’investimento bancario, alla condivisione di un problema famigliare, ci fidiamo di chi riteniamo competente, benevolente, collaborativo e anche credibile, ossia in grado di manifestare e provare adeguatamente sia competenza sia benevolenza (E. Lalumera, Trust in health care and vaccine hesitancy, «Rivista di estetica», n. 68, 2018). La fiducia del cittadino nelle istituzioni sanitarie si è erosa nel tempo: in Italia, ad esempio, le persone pensano alle visite frettolose dal medico di base, alle liste di attesa troppo lunghe, ai tagli alle strutture. Una volta ci si fidava del medico per autorità, adesso il paternalismo è tramontato, e l’autonomia da parte delle persone assistite richiede uno sforzo continuo del personale e delle istituzioni mediche per mantenere la fiducia. La pandemia ha creato da una parte il mito dell’infermiere e del medico eroe, dall’altra in generale ha screditato ancora di più le istituzioni sanitarie, ritenute colpevoli di non aver messo in atto le strategie giuste: ospedalizzazioni anziché cure a casa, protezioni insufficienti, blocco degli interventi e terapie non-Covid eccetera. Ora queste stesse istituzioni chiedono fiducia per la campagna vaccinale, ed è una richiesta difficile.
Sono state rispettate norme di fiducia nella comunicazione sui vaccini da parte delle istituzioni e dei media, durante i mesi che hanno preceduto l’inizio del Piano nazionale?
Secondo la proposta della fiducia come chiave di lettura della resistenza vaccinale, le strategie di promozione della vaccinazione a istituzionale dovrebbero essere indirizzate a ristabilire questo legame dei cittadini con le istituzioni sanitarie e governative. Come propone da diversi anni Heidi Larson, già direttrice della Global Immunisation Communication dell’Unicef, si parla qui di policy e non solo di comunicazione: alcune di queste plausibilmente richiederanno interventi di educazione a lungo termine, altre consisteranno in operazioni più puntuali e mirate di ascolto e gestione dei problemi specifici delle sottopopolazioni di dubbiosi e i resistenti (H. Larson et al., Addressing the vaccine confidence gap, «Lancet», n. 378, 2015).
Quello che occorre sottolineare è che qualsiasi operazione sulla relazione di fiducia coinvolge tanto chi la chiede (l’istituzione) quanto chi la offre (in questo caso il cittadino). La filosofa della scienza canadese Maya Goldenberg ha argomentato in un volume appena uscito che, nella misura in cui la resistenza vaccinale è un problema di fiducia, è anche simmetricamente e normativamente un problema di credibilità da parte delle istituzioni (Vaccine Hesitancy: Public Trust, Expertise, and the War on Science, University of Pittsburgh Press, 2021). Segue da queste riflessioni, riprendendo un’altra filosofa, Onora O’Neill (Linking trust to trustworthiness, «International Journal of Philosophical Studies», n. 26, 2018), che la comunicazione istituzionale della salute dovrebbe imporsi una norma della fiducia, intesa come truthfulness (meritarsi la fiducia), da affiancare all’accuratezza e veridicità delle informazioni: puntare sulla trasparenza, mostrare competenza e benevolenza.
Queste norme sono state rispettate nella comunicazione sui vaccini da parte delle istituzioni e dei media, durante i mesi che hanno preceduto l’inizio del Piano nazionale? Si può suggerire che siano stati fatti molti errori. Fin dall’inizio della pandemia la comunicazione istituzionale non è stata unitaria a livello internazionale, e la pluralità di soggetti non ha permesso ad alcuno di accreditarsi come autorevole, nemmeno all’Oms. Sempre a livello istituzionale «alto» era prevedibile che i vaccini sarebbero stati realizzati più velocemente che nelle situazioni normali, ma la comunicazione preparatoria è mancata: occorreva una comunicazione graduale che mostrasse gli scenari possibili, invece, quando i primi vaccini sono stati autorizzati, si è parlato immediatamente di procedura «di emergenza» dando a questa espressione una connotazione di scarsa scientificità. In Italia il disaccordo tra esperti sui media ha giovato all’intrattenimento, ma non al rafforzamento di un’attribuzione di competenza, né di impegno «benevolente» a favore della salute pubblica. Per rimediare occorre rendersi conto che il bene comune della fiducia tra il cittadino e le istituzioni è un prezioso e fragile tramite per la salute e il benessere, e fare in modo che non scarseggi mai.
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