L’emergenza sanitaria per l’epidemia da Coronavirus che in questi giorni si è estesa all’Italia non rappresenterà solo una prova seria e importante per il Sistema sanitario nazionale, ma lo sarà anche per molti altri aspetti, istituzionali e non, della vita pubblica del nostro Paese. Fra questi ce n’è uno connesso in modo cruciale alla gestione dell’epidemia di Covid-19 e alla possibilità di una discussione pubblica costruttiva su questo. Si tratta della questione della comunicazione della scienza (includendo in essa i temi della medicina e in genere della salute pubblica). È un argomento cruciale per le democrazie contemporanee, e situazioni come quella che si sta delineando in questi giorni rappresentano veri e propri casi studio nei quali le analisi teoriche vengono messe alla prova. In un certo senso, la diffusione del Coronavirus in Italia e in Europa rappresenta una sorta di stress-test per alcune idee sulle quali ormai da anni si articola il dibattito sulla comunicazione della scienza.

Vorrei provare a richiamare alcune di queste idee e avanzare alcune considerazioni a partire dallo scenario che si sta profilando. La premessa di questa riflessione (ma anche la sua spina dorsale) è l’idea che la comunicazione della scienza e il rapporto fra la comunità scientifica, le sue pratiche, le istituzioni e il pubblico non specializzato siano un aspetto essenziale della vita di una società democratica retta da principi liberali. In modo ancora più specifico, questa riflessione muove dall’idea che la “fioritura” di una democrazia dipende anche, e per certi versi in modo cruciale, dal modo in cui si svolge la discussione sulla scienza, i suoi scopi e le sue acquisizioni. Proprio alla luce di questa premessa, il punto di partenza è uno slogan che negli ultimi anni è stato ripetuto in modo sempre più frequente, soprattutto in relazione al tema dell’obbligo vaccinale e alle campagne dei cosiddetti “no-vax”. Lo slogan è quello ben noto che afferma che “la scienza non è democratica” (uno slogan che, per rappresentare più autenticamente le intenzioni dei suoi sostenitori, dovrebbe forse essere riformulato in “la scienza e la medicina non sono democratiche”).

Questo slogan è oggi di estrema attualità in quanto, a prima vista, l’avanzare dell’epidemia di Coronavirus sembrerebbe provare tutta la sua verità. Di fronte a un’epidemia non si dovrebbero forse ascoltare epidemiologi, virologi, infettivologi e medici in genere, ed affidare a loro l’individuazione delle soluzioni più adeguate? Possiamo forse votare per alzata di mano se una determinata sostanza è adatta a disinfettare le mani e prevenire la trasmissione del virus? Si tratta del genere di questione che è nelle mani dell’esperto e sulla quale il laico può avere ben poco da dire. Certo, se ci limitiamo a questo senso minimale e di facciata dell’affermazione per cui la scienza non sarebbe democratica, allora sembrerebbe che si debba convenire sul fatto che effettivamente la scienza non è democratica e, quindi, sui virus non si vota, così come non si vota sulla costante di gravitazione universale.

La relazione fra scienza e democrazia, tuttavia, è ben più complessa. Anzitutto, in termini generali va detto che la scienza è democratica, nella misura in cui i suoi metodi e la sua pratica (almeno in quelli che si delineano a partire dalla modernità) si intrecciano e si sovrappongono a quelli costitutivi della vita democratica e del suo discorso pubblico. Non si può qui scendere nel dettaglio, ma a confermare questo legame può bastare rilevare il fatto che la comunità scientifica contemporanea è un luogo di pari, regolato da trasparenza e diritto di parola di ciascuno dei membri, nel rifiuto di qualsiasi principio di autorità. Al di là delle considerazioni generali di ordine teorico e storico, proprio il caso del Coronavirus mostra la necessità di pensare e promuovere una relazione strutturale - tutt’altro che una incompatibilità - fra scienza e democrazia. L’esistenza di questa relazione strutturale (e la necessità di una riflessione su di essa e di un suo rafforzamento) risalta in modo evidente nel momento in cui si esaminino almeno due aspetti di ciò che sta accadendo nel caso della diffusione del Coronavirus.

Anzitutto, a chiunque stia seguendo con un minimo di attenzione la vicenda è evidente che nella stessa comunità scientifica non c’è (come del resto su qualsiasi tema scientifico) una perfetta concordanza. Su alcuni fatti basilari c’è un sostanziale accordo (ad esempio la tipologia del virus e il tipo di effetti che produce sull’organismo), ma su altri c’è discordanza (come sulla valutazione del rischio di contagio e la diffusione). Si tratta di discordanze importanti perché da esse dipendono anche - e soprattutto in un caso come questo - le misure sanitarie adottate a livello istituzionale. Di questo, però, si dirà più oltre. Dinanzi a questa situazione cosa è lecito, o meglio auspicabile, attendersi da una comunicazione che sia interessata a promuovere la relazione fra scienza e democrazia? Ancora di più, cosa è desiderabile attendersi da una comunicazione che voglia contribuire a prevenire la corruzione del tessuto democratico in una situazione come questa? Le emergenze, come noto, sono sempre un rischio per le democrazie.

In una situazione del genere, ad esempio, sarebbe auspicabile che, insieme al dato (es. letalità del virus) si fornissero anche informazioni sulla possibile precarietà di quel dato, ovvero sul fatto che, per la natura stessa del metodo scientifico, l’oggettività di quel dato è di natura particolare. Non si tratta di opporre incertezze alla richiesta di certezze del grande pubblico, ma di sottolineare la natura rivedibile e “aperta” di ogni dato scientifico. Si tratta di un’avvertenza forse banale, ma che sembra ben poco praticata in un contesto che genera e si alimenta di slogan come “la scienza non è democratica” e che spesso privilegia l’uso muscolare delle evidenze scientifiche. Accompagnare la comunicazione del dato con una sorta di “avvertenza sul metodo” ha l’effetto non solo di evitare il diffondersi di certezze granitiche e per principio inconfutabili (qualcosa che in democrazia non sembra mai auspicabile), ma anche di sostituire alla fiducia nel dato la fiducia nel metodo. Una relazione matura della cittadinanza democratica con la scienza non sembrerebbe potersi costituire come una relazione di acritica fiducia nei dati della ricerca, ma come una relazione di fiducia consapevole nelle metodologie della scienza e nelle sue pratiche. Questo tipo di fiducia consapevole, peraltro, contribuisce alla formazione di una cittadinanza attiva, capace di valutare in modo critico eventuali allarmismi.

Proprio quell’uso muscolare della scienza sembra avere tratto molto alimento dalla diffusione dei social network e dalla nascita di figure inedite prima dell’avvento di Facebook e Twitter. Si tratta delle figure di quegli esperti che stabiliscono un dialogo diretto con il pubblico generale senza le tradizionali mediazioni, quali i luoghi di istruzione, i giornali o altri luoghi di comunicazione scientifica e discussione pubblica istituzionalizzati, cioè dotati di regole e di organi di governo (come, ad esempio, le società scientifiche o le associazioni culturali). I social network hanno creato l’esperto che dialoga direttamente con il proprio pubblico, o meglio con i propri follower. Questa innovazione può sembrare una grande opportunità per la comunicazione scientifica, coinvolgendo su determinati temi un pubblico più ampio che in passato. In verità, tale novità - e il caso del coronavirus lo dimostra - rappresenta un potenziale grave vulnus per una relazione sintonica fra scienza e democrazia. Anzitutto, come in generale la fenomenologia dei social network dimostra, l’esperto con centinaia di migliaia di follower (se non milioni) rischia di essere percepito come autorevole - in un circolo perverso - solo per il fatto stesso di avere una grande seguito. In secondo luogo - e cosa ben più grave, la creazione di canali di informazione di questo tipo rischia di sottrarre credibilità e spazio ai modi e luoghi di decisione su temi come quelli di salute pubblica che sono propri di uno Stato democratico.

In uno Stato democratico l’autorità sanitaria ultima è di natura politica ed è, nel caso italiano, rappresentata dagli organi esecutivi e legislativi della Repubblica. Sta a questi organi di avvalersi della consulenza di esperti per adottare decisioni politiche scientificamente informate. La diffusione di esperti intesi come autorità autocostituitesi, ad esempio sui social network, rappresenta un pericolo nella misura in cui possono alterare la discussione pubblica deviandola dai suoi canali costituiti e istituzionali. Ciò non significa, ovviamente, che non sia auspicabile un confronto libero e franco - anche sui social network - ad esempio sulle misure sanitarie da adottare per contenere e debellare l’epidemia di Covid-19. Significa, piuttosto, che quanti si presentano come esperti nell’agorà del dibattito pubblico utilizzino responsabilmente il proprio ruolo, evitando di presentarsi come surrogati delle istituzioni, cosa che produce il rischio di distorcere i processi decisionali democratici e di sottrarli alle proprie sedi naturali. A rappresentare un pericolo per la fiducia nella scienza in una democrazia non sono solo le insensatezze dei no-vax o il folklore dei terrapiattisti, ma anche - e in modi forse più sottilmente rischiosi - le concezioni autoritarie della scienza stessa.