L’irruzione della pandemia nei nostri ordinamenti costituzionali ha prodotto effetti indiretti sui diritti individuali, a causa delle stringenti limitazioni imposte per contrastare la diffusione del contagio. Libertà di circolazione, di riunione, di iniziativa economica, diritto di voto, al lavoro e all’istruzione sono stati oggetto di significative compressioni, senza precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale. Altrettanto rilevanti, anche se meno tangibili, sono state le conseguenze sull’organizzazione dei poteri, che hanno riproposto e accentuato la nota dicotomia tra centralità del governo e marginalità del Parlamento, che ormai da qualche decennio connota gli equilibri dei sistemi di governo delle democrazie stabilizzate.
I governi sono stati da subito protagonisti dell’azione pubblica di contrasto alla pandemia: chiamati in causa per rispondere con tempestività alle conseguenze derivanti dalla diffusione del Coronavirus, hanno anche instaurato un canale di comunicazione diretta con il popolo per spiegare le condizioni della salute pubblica e le ragioni delle misure adottate per tutelarla. Ma dei legittimi rappresentanti del popolo, dei Parlamenti, che ne è stato?
L’analisi comparata mostra che i Parlamenti – a differenza dei governi – hanno inizialmente reagito al Covid-19 “rallentando il passo”. Un’espressione che abbraccia scelte molto diverse, che oscillano dalla chiusura al pubblico delle sedi della rappresentanza politica nazionale, alla riduzione del numero dei partecipanti alle sedute, all’aggiornamento dei lavori o alla riorganizzazione dell’agenda parlamentare, in entrambi i casi con l’obiettivo di concentrare i lavori sull’esame/approvazione delle misure adottate dai governi per contrastare il contagio e sostenere i costi economici del lockdown.
Si tratta di una risposta comprensibile nell’immediato: sul fronte della partecipazione ai lavori, alla luce della numerosità degli organi parlamentari e delle loro strutture serventi, nonché del pendolarismo che connota la vita professionale della classe politica. Sul versante dell’organizzazione dei lavori, in ragione dell'urgenza “del provvedere” in relazione alle conseguenze del Coronavirus, che è divenuto brevemente la priorità dell’agenda politica.
Nondimeno, i Parlamenti svolgono funzioni essenziali per gli ordinamenti democratici – rappresentativa, legislativa e di controllo –: debbono pertanto essere pienamente funzionanti, soprattutto in tempi di emergenza. Il caso contrario solleva problemi di ordine funzionale e simbolico. Funzionale poiché priva gli ordinamenti costituzionali di organi che proprio in questi frangenti sono chiamati a lavorare a pieno regime, non solo perché l’intervento della legge è indispensabile per fondare legittimamente la limitazione dei diritti e l’autorizzazione della spesa pubblica, ma anche per controllare le scelte compiute dal potere esecutivo in ordine al concreto bilanciamento tra gli interessi costituzionali “in gioco”. Simbolico, poiché in un momento in cui rimangono operative le sole attività essenziali rischia di veicolare all’opinione pubblica l’idea che quelle parlamentari non siano fra queste e che dei Parlamenti si possa fare a meno.
Fortunatamente lo “spaesamento” dei Parlamenti non è durato a lungo. Superato il disorientamento iniziale, anche in seguito alle sollecitazioni provenienti dal dibattito pubblico e dagli addetti ai lavori, le assemblee rappresentative hanno riorganizzato le proprie modalità di lavoro per tornare operative, e nel farlo si sono confrontate con la possibilità di lavorare a distanza. Da apripista in questo ambito è stato di certo il voto del 26 marzo del Parlamento europeo.
Di fronte a questo scenario le reazioni sono state tre. Alcuni Parlamenti hanno escluso in radice tale ipotesi sulla base delle previsioni costituzionali e regolamentari che prescrivono o presuppongono la presenza fisica di deputati e senatori nella aule parlamentari al fine del regolare svolgimento dei lavori. È questo il caso di Italia e Irlanda. Altri Parlamenti, invece, hanno “forzato” l’interpretazione delle norme regolamentari che già consentivano il voto per delega (Francia) o a distanza (Spagna) per poterle applicare a un’ampia platea di parlamentari e renderle così fruibili in occasione dell’emergenza sanitaria. Altri ancora, infine, hanno temporaneamente (Germania e Regno Unito) o stabilmente (Belgio) modificato le proprie norme regolamentari per consentire le riunioni e il voto da remoto delle commissioni (Germania) e talvolta dell’Aula (Regno Unito).
In quest’ultimo caso, nondimeno, è d’obbligo una duplice precisazione: da un lato, le aperture sono state connotate da un’estrema cautela in relazione ai lavori a distanza del plenum, soprattutto in relazione al voto, dall’altro, resta la preferenza per il lavoro in presenza, nella misura in cui la partecipazione ai lavori da remoto è una possibilità che non sostituisce il diritto a partecipare fisicamente alle riunioni camerali.
Lo scenario del “Parlamento digitale” è infatti controverso. Da un lato gli strumenti della tecnologia aprono la possibilità di lavorare da remoto anche per le istituzioni rappresentative, consentendo la continuità delle funzioni parlamentari in condizioni emergenziali o di normalità per chi è colpito da un impedimento temporaneo. Dall’altro sollevano non pochi problemi di ordine costituzionale, teorico e pratico. Dal punto di vista costituzionale, implicano un’attenta valutazione dei vincoli imposti dalla Costituzione e dei margini di “manovra” a disposizione dei regolamenti parlamentari. In Italia su questo aspetto si è aperto un nutrito dibattito tra chi ritiene insuperabile la compresenza fisica dei Parlamentari in un medesimo luogo (in forza dell’art. 64, terzo comma, Cost., ai sensi del quale “le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale”: cfr. Massimo Luciani) e chi invece pensa che i regolamenti parlamentari abbiano la possibilità di declinare in senso evolutivo la presenza alla quale fa riferimento la carta fondamentale (cfr. Stefano Ceccanti e Nicola Lupo e Salvatore Curreri). D’altro canto, anche ritenendo che i regolamenti parlamentari possano operare questo salto, non si possono sottostimare le conseguenze sistematiche derivanti dal considerare le Camere riunite anche quando non vi sia una compresenza fisica nel medesimo luogo, essendo questa la nozione di riunione accolta dalla Costituzione (art. 17 Cost.).
Numerose sono anche le questioni pratiche: fatta eccezione per il dibattito che si svolge in collegi di piccole dimensioni, le commissioni, il trasferimento “virtuale” richiede un profondo ripensamento dei procedimenti parlamentari. È inoltre doveroso domandarsi in quale misura gli strumenti della tecnologia oggi a disposizione garantiscano la personalità e – ove prevista – la segretezza del voto. Infine, devono essere valutati i problemi di sicurezza e le conseguenze collegati all’utilizzo di piattaforme informatiche private per lo svolgimento di attività istituzionali. La risposta a questo complesso di problemi difficilmente può essere formulata nei tempi rapidi della pandemia, ma forse alla pandemia va riconosciuto il merito di aver sollevato la questione e consegnato ai Parlamenti l’onere di affrontarla. Il lavoro da remoto dei Parlamenti è un'opportunità della quale vanno meditate le implicazioni e governate le conseguenze. La sua introduzione può essere uno strumento di grande utilità, ma può prestare il fianco a una lettura riduttiva del lavoro parlamentare, in tempi in cui la politica già non gode di “chiara fama”, che è ben lungi dal risolversi in un “click”.
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