Nella letteratura, e in generale nelle arti, sembra oggi molto scarsa la disponibilità a rimettere in discussione i valori che ci vengono dal passato. Anziché demistificare il racconto storiografico, si mitizzano zone sempre più vaste di un presente ancora immerso nella cronaca. Sintomo di questa situazione è un paradosso malinconico: la critica, ormai, trova un po’ di ascolto solo dove non la si rispetta in quanto tale, bensì per le ragioni contro cui nasce - quelle dell’ipse dixit. Ma se le cose stanno così, chissà che i lettori dei Pareri editoriali per Einaudi di Franco Fortini, editi ora (2023) da Quodlibet grazie alle cure di Riccardo Deiana e Federico Masci, non siano indotti a rimettere in dubbio certe opinioni correnti almeno dall’autorevolezza della fonte. Il più originale marxista critico italiano fu consulente della casa editrice torinese dal 1947 al 1963 (anno del caso Fofi) e poi dal ’78 all’83 (anno della crisi finanziaria). Della prima stagione, l’antologia ci consegna pochi pezzi: la maggior parte dei pareri, infatti, veniva pronunciata nelle leggendarie riunioni del mercoledì, o attraverso la pianificazione diretta (tra il ’59 e il ’61, quella della Piccola Biblioteca Einaudi). Fitte, invece, sono le schede a cavallo del cosiddetto riflusso: ovvero negli anni in cui, nell’opera di Fortini, il “discorso diretto” sulla politica, via via meno credibile, si scinde dal “discorso indiretto” sulla letteratura, che dà i risultati migliori nel confronto con i classici. Qui il consulente si occupa di saggistica (specie straniera) e di prosa narrativa; ma soprattutto coordina l’ultimo tentativo sensato di passare al setaccio, attraverso una serie di volumi collettivi, la massa dei nuovi lirici italiani, prima del definitivo cedimento della collana bianca alla prepotenza autopromozionale del “pubblico della poesia”.
Sfogliando questi Pareri, ci si convince presto di avere davanti un eccezionale libro di critica, che potrebbe costituire un’appendice degna dell’Ospite ingrato. Il genere della scheda o della lettera semiprivata è congeniale a Fortini. Gli permette di emanciparsi dal profilo pubblico di cavilloso ufficiale della dialettica, e qua e là perfino di dimostrare una comicità esilarante, che alleggerisce senza cancellarlo il suo tipico sarcasmo verso gli estetismi del Novecento: “letteratura delle zie, delle vacanze sulla spiaggia […] delle prime erezioni, di Alain Fournier” scrive ad esempio per liquidare la sensibilità fiorentina entre deux guerres che da ragazzo aveva assorbito con precoce insofferenza. Ma come osservano i curatori nell’ottima introduzione, l’eccezionalità del libro sta soprattutto in un’applicazione condensata e tuttavia limpidissima dello “sguardo ‘stratigrafico’” di Fortini. Sempre didatticamente attento al telos di ogni operazione culturale, il critico vi propone sintesi geniali di storia della ricezione, controllando al tempo stesso i dati storico-politici e i dati formali, ovvero indicando i modi in cui il valore di un determinato stile muta a seconda dei tempi e dei luoghi. “Quasi cinquant’anni fa”, afferma nel resoconto su una biografia heiniana, “Noventa scriveva che le tendenze letterarie italiane si potevano definire dal loro atteggiamento nei confronti di Heine; e se questo non può dirsi oggi, ciò è perché la nostra cultura ha omologato la somma di due rifiuti di Heine, quello crociano e quello delle avanguardie e del novecentismo”.
Come osservano i curatori nell’ottima introduzione, l’eccezionalità del libro sta soprattutto in un’applicazione condensata e tuttavia limpidissima dello “sguardo ‘stratigrafico’” di Fortini
L’attenzione alle coordinate di spazio e di tempo si riscontra anche nella consueta diffidenza per le traduzioni che pretendono di offrire talentuose equivalenze verbali, contro cui Fortini raccomanda al contrario versioni “letterali” o esplicative, ossia saggistiche. Ma i climax critici vengono raggiunti dove il consulente demistifica in presa diretta le ideologie poetiche e teoriche che avrebbero di lì a poco prevalso, e delle quali la cultura del ventunesimo secolo è un prodotto così spesso incosciente. Si legga il giudizio su Gianni Celati, che inseguendo la simpatia del pubblico goliardico finisce per ripetere ovunque lo stesso monotono meccanismo, a cui si potrebbero assegnare indifferentemente dieci o duecento pagine; o si veda quello su Maurice Blanchot, “uno dei critici che pretendono al discorso ininterrotto; e che quindi possono essere interrotti pressoché ovunque senza gran danno”. È il carattere che altrove Fortini coglie in Giorgio Manganelli, sostenendo che siccome la sua scrittura non fa attrito con nessun vero ostacolo esterno “ha sempre ragione” da un lato, ma dall'altro “non ha ragione mai”: e non si potrebbe dire meglio, per spiegare una letteratura destinata a dare ai perbenisti un’illusione di antagonismo e a incentivare una sovrainterpretazione scolastica – una letteratura, insomma, che evitando tutti i rischi di fallimento rinuncia anche a un’autentica possibilità di riuscita, soddisfacendo soltanto chi la esplora per brevi campioni intercambiabili o chi la studia per ragioni in tutti i sensi accademiche.
Ma ancora più salutarmente, dall’Ade il vivissimo Fortini scuote gli evanescenti letterati del 2024 giudicando La vita istruzioni per l’uso di Georges Perec un testo “kitsch”, un “contributo alla creazione di sottoletteratura” nato dal “sogno supremo di essere più intelligente del compagno di banco”: opinione analoga a quella di Giovanni Raboni, che parlò della “pantografia” superflua quanto ingegnosa di una trovata da barzelletta. Eppure, in merito alla pubblicazione, il responso del consulente è un beffardo “SI’”, motivato dalla consapevolezza del fatto che per il modellino da bricoleur della Vita è già maturo l’entusiasmo di una middle class culturale abituata a scambiare per raffinatezza i cruciverba dotti o i cubi di Rubik. Malgrado la sua malinconica lungimiranza, però, Fortini non aveva previsto che i figli di quella middle class sarebbero stati disposti a ingurgitare cibi culturali ben altrimenti adulterati. Schedando nel 1978 un libro di Hermann Glaser che classificava la letteratura del Novecento secondo una serie di “motivi” (Commercio, Giovani, Parricidio…), osservò che si trattava di un “‘bigino’ per sottosviluppati, quale credo nessun editore italiano oserebbe pubblicare”: e non è invece proprio questo il tipo di testo che molti editori parauniversitari ci propongono ormai da decenni, stampando studi bouvardpecuchettiani sugli Abiti, gli Animali o l’Ecologia nella storia letteraria?
“Ormai sono in tanti gli autori che ‘fanno’ dei prodotti, che chiamerei non convenzionali ma convenzionati”, scrive Fortini nei Pareri
Ma non meno fortiniano della polemica, nei Pareri, è il gesto esibito del chierico che dà l’onore delle armi agli avversari ideologici di vaglia. Nessuna lode è superiore a quella tributata al racconto di Bioy Casares L’invenzione di Morel, che col suo mito di un eterno ritorno aggiornato all’età del comportamentismo e del cinema veicola una concezione del mondo opposta alla Weltanschauung di Fortini, e da lui anzi ritenuta mostruosa. È una concezione che nelle sue opere il critico evoca spesso, anche facendo riferimento al racconto “perfetto” di Bioy Casares. Succede, ad esempio, in un saggio famoso su Ariosto, dove il Morel è citato per illustrare la circolarità gratuita del Furioso, il suo mondo di morti viventi che un incantesimo chiude fuori dalla Storia: dire che tutto è uno scherzo, vi argomenta Fortini, non è affatto un’opinione scherzosa, come vorrebbero gli ammiratori crociani o calviniani dell’armonia ariostesca, bensì una conclusione tra taoista e macabra, destinata a cancellare qualunque grande progetto umano (“se vuoi capire l'Ariosto devi, come il protagonista del racconto, accettare di farti inghiottire dalla macchina prodigiosa e di penetrare in un universo della ripetizione, dove tutto ha senso a breve, ed è insensato a lungo termine”).
Da proiezione fantastica, oggi questa condizione sembra divenuta la nostra realtà, esistenziale e anche letteraria. “Ormai sono in tanti gli autori che ‘fanno’ dei prodotti, che chiamerei non convenzionali ma convenzionati, come si dice delle cliniche che hanno rapporti privilegiati con certe mutue”, scrive Fortini nei Pareri, fotografando epigrammaticamente le prime fasi della metamorfosi. Innumerevoli autori di poesie, di romanzi e di saggi critico-politici hanno rinunciato a priori agli scopi universalmente umani, a una fortiniana “formalizzazione della vita”. Si accontentano della mera sopravvivenza artificiosa, virtuale, che per un’effimera stagione assegnano loro i media o i dipartimenti, con gran dispendio di pareri, bandelle, recensioni e studi sfacciatamente o implicitamente apologetici.
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