Paolo Rossi comprava i giornali all’edicola di corso Agnelli, a Torino, vicino al campo Combi dove la Juventus si allenava. Per noi ragazzi del quartiere popolare di Santa Rita, che passavamo le giornate intere a giocare a calcio al parco di Piazza d’Armi, Rossi non era umano, era un idolo. Un idolo che però incontravi andando a comprare le figurine. In quegli anni era ancora così. I calciatori erano ricchi, sì, ma non mostruosamente. Vivevano nel nostro stesso quartiere, guidavano automobili normali, facevano la spesa e li incontravi nei negozi o a passeggiare per le strade indisturbati.
Così poteva capitare di incontrare il centravanti della tua squadra davanti all’edicola. Lui vedeva i tuoi occhi sbarrati. E ti sorrideva. Si fermava un attimo, solo per te, solo perché capiva (anche se te ne stavi lì pietrificato dall’emozione) che quell’attimo per te era speciale. E allora apriva quel sorriso, ti dava un buffetto e andava ad allenarsi. Succedeva così con i calciatori, allora. Era capitato anche con Gaetano Scirea, con Dino Zoff. Un giorno la porticina del campo da calcio dell’oratorio di Santa Rita si aprì ed entrarono a bordo campo a partita in corso Zoff, Brio e Rossi: si misero a guardare la partita e ad applaudire i ragazzi che stavano giocando.
Vivevamo attorno allo stadio e ai campi di allenamento. Era il grande privilegio del “quartiere dei centomila”, come lo chiamavano allora, perché tanti eravamo. Un enorme quartiere operaio cresciuto molto in fretta vicino alla Fiat di Mirafiori. Un quartiere dove convivevano, paralleli e a pochi passi di distanza, corso Giovanni Agnelli e corso Unione Sovietica. Un colpo al cerchio e uno alla botte. E si conviveva. Così come convivevano Juve e Toro, una al Combi, l’altro al Filadelfia: due pianeti diversi a 300 metri di distanza.
Così magari tornavi per gli allenamenti e i giocatori attraversavano la strada tutti insieme in via Filadelfia, sulle strisce. Perché si cambiavano negli spogliatoi del Comunale, ma i campi di allenamento erano da quell’altra parte. E Rossi un giorno forse mi riconobbe davvero e sorridendomi mi indicò con il dito e io pensai che volesse dire “ma sei sempre qui! Ti ho già visto!”.
È difficile dire che cosa significò poi quell’estate dell’82. Lo hanno già scritto in tanti ed è proprio così. Erano calciatori meravigliosi ma persone normali, ragazzi come tanti altri ma destinati a popolare i nostri sogni per sempre.
Quando Rossi spinse dentro quella palla in finale era come se dietro avesse tutti noi a sorreggerlo e a entrare corpo e palla dentro la porta dei tedeschi. Il corpo magro, il volto scarno, gli occhi malinconici dallo sguardo bellissimo e quel sorriso giocoso che è un po’ l’autobiografia di una nazione.
Quel gol, tutto quel Mondiale, segnò davvero la fine degli anni Settanta, la svolta simbolica dopo gli anni di piombo. L’atmosfera nelle città, nella nostra Torino operaia, era cupa. Il brigatismo uccideva o feriva per strada operai, sindacalisti, dirigenti, giornalisti, medici, infermieri, avvocati, magistrati. Quel Mondiale rimise insieme le persone, tutte. Per una cosa banalissima ma che è la più seria di tutte: un gioco. E poi quella vittoria epica con la Germania, in un Paese che aveva ancora scritte nelle storie familiari le ferite delle Grandi Guerre, le prigionie, le deportazioni. Si può fare finta che non fosse così, ma sarebbe disonesto: era una vittoria speciale.
Paolo Rossi anche in questo era un simbolo. Lui con il nome più comune di tutti pur ancora giovane aveva già alle spalle una carriera martoriata da infortuni e operazioni. E anche dall’inattività forzata per il coinvolgimento (altrettanto forzato) nel calcioscommesse, Ma seppe rialzarsi. Bearzot lo aspettò come un padre paziente. E fu ripagato con gli interessi. E amato fino all’ultimo giorno.
Tanti anni dopo quelle mattine in corso Agnelli, ritrovai Rossi per lavoro. Ero tra i caporedattori di “Metro International” e gli chiedemmo di diventare commentatore di calcio per tutto il network: 98 edizioni, 25 Paesi, da Seul a Vancouver. Tutte le nostre edizioni, tutte, mi chiesero di averlo.
Accettò divertito di scrivere per noi i suoi commenti (gratuitamente), gli piaceva tantissimo l’idea di finire tradotto in tutte quelle lingue, lo stesso giorno in tutte quelle città, in un’epoca in cui “Metro” aveva 27 milioni di lettori al giorno in tutto il mondo.
Funzionava cosi: lo chiamavo, gli chiedevo quali fossero secondo lui i temi di cui parlare (era straordinario quando analizzava le partite o anticipava quel che poteva succedere, anche intuendo le caratteristiche specifiche di un giocatore in quella partita), parlavamo un’ora e ci mettevamo a scrivere 60 righe che poi mandavo in giro in inglese per essere tradotte in francese, spagnolo, portoghese, coreano, russo, polacco, ungherese, danese, svedese, finlandese, greco.
Oltre al privilegio assoluto di parlare di calcio con un mio eroe, la cosa che più mi stupì in quegli anni fu l’incredibile cortesia ed educazione di Paolo Rossi. Sempre gentile, sempre puntuale, sempre disponibile.
Sembrava sorridere al telefono, sempre pronto a una risata, anche quando dicevo una stupidaggine sul calcio e mi correggeva dicendo che da fuori poteva sembrare così, ma per un calciatore era diverso.
I suoi commenti erano molto belli e dettagliati e da tutto il network mi arrivavano grandi complimenti per quel che scriveva. È stato uno di quegli incontri che hanno reso così fortunata la mia vita professionale.
Oggi ricordo quel suo sorriso sotto casa mia, io che lo incrocio mentre spero di trovare la sua figurina. Lui che capisce e mi regala un saluto che ricorderò.
Perché i veri eroi sono così: sanno quanto è importante farti felice. Anche solo per un secondo. Quel secondo che dura per sempre.
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