Sono le 10 del mattino del 6 novembre quando, seguendo le indicazioni di una chat, raggiungo un caffè sotto il ponte della ferrovia di Glasgow. Non so chi incontrerò né conosco i contenuti dell’incontro. Mi sono messo al servizio in qualità di osservatore e divulgatore di un’azione organizzata clandestinamente da un gruppo di «scienziati ribelli» del movimento Extinction Rebellion. È un atto collaterale alla manifestazione principale in favore della giustizia climatica, in occasione della Cop26 delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
Mi accodo a un gruppo di persone. Ancora non so che cosa accadrà. In brevissimo tempo, una ventina tra scienziati e accademici si incatenano l’uno all’altro seduti al centro della carreggiata
Mi accodo a un gruppo di persone verso il ponte Giorgio V. Ancora non so che cosa accadrà. In brevissimo tempo, vedo una ventina tra scienziati e accademici incatenarsi l’uno all’altro seduti al centro della carreggiata. Bloccando il traffico, mentre alcuni poliziotti cercano invano di spostarli di peso, espongono uno striscione: «Rivoluzione climatica o perderemo tutto». Vigilati da una schiera di poliziotti sempre più folta, proseguono la loro protesta pacifica, nonostante la pioggia battente e il vento. Aaron Thierry, con un dottorato in Ecologia all’Università di Sheffield, mi dice che se la Cop26 agisse in coerenza con gli obiettivi degli accordi di Parigi, proibirebbe immediatamente tutti i nuovi progetti di estrazione di combustibile fossile. Al contrario, le multinazionali dell’energia, presenti in massa alla Conferenza, stanno trovando il modo di proseguire indisturbate. Gli accordi di Glasgow non varranno la carta su cui sono scritti, conclude. Mike Lynch-White, fisico e co-fondatore del gruppo, non esita a parlare di genocidio per descrivere i morti nel Sud del mondo per fame e siccità causate dagli effetti del cambiamento climatico, indotti principalmente dai combustibili fossili usati nel Nord del mondo. Mila Todd, studentessa in chimica e biologia, ricorda la fuoriuscita di petrolio da una nave di proprietà della British Petroleum a largo delle isole Mauritius. Charlie Gardner, professore di Scienze della conservazione ambientale all’Università del Kent, dice di affiancare all’insegnamento degli effetti del cambiamento climatico nelle aule universitarie forme di protesta pubblica non violenta. «Se la situazione fosse così grave come sostengono gli scienziati – ci si sente spesso obiettare- loro stessi scenderebbero in piazza»: eccolo in strada.
Dopo cinque ore di protesta, la polizia rompe le catene e pone i manifestanti sotto arresto per ostruzione della circolazione. Saranno tutti rilasciati nel corso della serata, o il giorno successivo dopo breve udienza in tribunale, senza alcuna incriminazione né il pagamento di una ammenda. È solo una delle tante azioni svolte durante i dieci giorni di manifestazioni parallele alla Cop26, durante i quali non è giunta notizia di alcuna manifestazione di violenza. In alcuni casi la polizia ha scelto di restringere la libertà d’espressione dei manifestanti, in particolare nella manifestazione del 3 novembre contro il greenwashing, quella «pennellata verde» che governi e imprese spesso danno ai propri programmi per promuoverli come eco-sostenibili anche laddove lo sono solo in minima parte. In quell’occasione, un cordone di poliziotti accerchia i manifestanti e li immobilizza per quattro ore, al punto da costringerli a improvvisare una toilette da campo. Al pacifismo delle azioni si è poi unita molta creatività. Partecipanti da tutti i continenti, eccetto l’Oceania, si sono coordinati preventivamente in rete e poi uniti a Glasgow in una sorta di danza globale che inscenava l’ingiustizia climatica e la sua denuncia. «Vogliamo che i milioni di persone che non possono essere presenti si sentano rappresentati da noi» – dice Verónica Van Horenbeke (da Bilbao), coreografa che insieme ad altri ha ideato la suggestiva danza che mette in scena la spasmodica ricerca del profitto a danno delle risorse naturali e dell’integrità delle persone, divenute parti di un ingranaggio impazzito e destinato a rompersi. Nel momento centrale dell’esibizione, i ballerini si siedono a guardare la proiezione su un maxischermo delle danze inviate da altre parti del mondo come Uganda, Argentina e Corea del Sud. Infine, si immobilizzano nell’atteggiamento di un grido muto, a simboleggiare la rabbia inascoltata di quanti soffrono la perdita dei propri ecosistemi.
Alla protesta pacifica contro il greenwashing un cordone di poliziotti accerchia i manifestanti e li immobilizza per quattro ore, al punto da costringerli a improvvisare una toilette da campo
Vari gruppi hanno raggiunto la Cop26 dopo centinaia di chilometri percorsi a piedi, in bicicletta, o in barca a vela. L’artista Arnd Drossel, partito dalla Germania, ha camminato per tre mesi all’interno di una griglia metallica di forma sferica. Portava a Glasgow le promesse di cambiamento e di cura ambientale scritte da 843 persone su nastri colorati. Il ciclista Omar Di Felice ha testimoniato il suo appoggio alla causa ambientalista percorrendo i 2.000 km da Milano in 8 giorni in bicicletta. Hole, insegnante di scuola secondaria a Bruxelles, giunge in bici da Newcastle direttamente alla manifestazione dei Fridays for Future. «Sono pessimista sul raggiungimento di un accordo – dichiara - ma sono qui per esprimere il mio supporto alle generazioni più giovani e quelle future». E i giovani esprimono gradimento e conforto: «i gruppi con cui collaboro in Germania - dice Mone, attivista ventenne di Amburgo -sono formati da giovanissimi, e vedere persone di tutte le età lottare solidalmente mi infonde fiducia e uno spirito di fraternità del tutto speciale».
I gruppi afferenti a Cammino alla Cop26 hanno percorso più di 800 km a piedi partendo da Londra o da Bristol. Quindici persone hanno fatto l’intero tragitto lungo 48 giorni, durante i quali hanno messo in scena una performance teatrale sul cambio climatico. 2.500 persone si sono unite lungo singole tratte del tragitto. L’idea del cammino ha una connotazione religiosa e si richiama all’esperienza del pellegrinaggio; ma include anche il valore etico e trasformativo del contatto prolungato con la Madre Terra. Il gruppo Marcia a Glasgow, partito in nave da Bilbao, ha marciato per 1.000 km da Portsmouth in un solo mese, con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico sul cambio climatico. I cittadini delle comunità incontrate hanno partecipato numerosi nell’accoglierli, coinvolgendo scolaresche ed organizzando eventi come un Festival delle Luci a Leeds e una recita nell’antica cattedrale di Coventry, lasciata semi-distrutta dalla Seconda guerra mondiale. Becky Stoakes, una delle partecipanti, mi dice che la marcia, e le persone che l’hanno sostenuta, le hanno infuso ottimismo, confessando di aver rinunciato da tempo a fare progetti di vita con una proiezione superiore ai dieci anni. I vari gruppi sono confluiti in un’unica processione il giorno d’inizio della Cop26.
La «Blue Zone» è l’area accessibile esclusivamente a delegati alla negoziazione e osservatori internazionali accreditati. L’intera area ha un che di spettrale, interamente circondata com’è da alti reticolati di ferro col filo spinato e sorvegliata nei suoi ingressi da poliziotti col volto nascosto da un passamontagna. Posti di blocco ai 2 lati del lungo viale che porta dal fiume Clyde alla Blue Zone, e pattugliati da vigilanti anch’essi dal volto coperto, impediscono la circolazione di veicoli. Si avverte un silenzio quasi irreale, rotto dal bisbiglio dei «pellegrini» del Cammino alla Cop26, raccolti in preghiera sul marciapiede di fronte alla barriera. La loro è una sorta di veglia spirituale che accompagnerà senza sosta i lavori dei negoziati. Alcuni meditano, altri pregano con le mani giunte, altri leggono il Vecchio Testamento in ebraico. Helen mi mostra un libro di poesie, ne ha composta una al giorno durante il suo cammino. «Siamo di passaggio – leggo - le persone che ci hanno amato, dato gioia e ristoro, ora sono dietro a noi. La vita è come vapore scritto su di una tomba, una rondine, un fiore d’autunno, un raggio di sole tra gli alberi».Sono arrivati su un jet privato o con un volo di linea, e probabilmente ignorano che i manifestanti raccolti al di fuori della Blue Zone per raggiungere lo stesso luogo hanno camminato per due mesi
A poca distanza, transitano gli accreditati all’ingresso nella Blue Zone. Ai posti di blocco scendono da auto eleganti e attraversano disinvolti il viale: camminano veloci, sorridono, scherzano, incuranti del vento che fa sventolare il loro pass d’ingresso dalle loro giacche immancabilmente nere alle loro camicie immacolate di bianco. Sembrano non curarsi delle persone in preghiera, né dei nastri colorati con le promesse di comportamenti rispettosi dell’ambiente, ora appesi alle barriere metalliche. Ignorano i vestiti femminili che sventolano anch’essi sul reticolato, di un rosso acceso a simboleggiare il sangue delle centinaia di donne del Sud del mondo che hanno dato la vita per la causa ambientale. Sono arrivati su un jet privato o con un volo di linea, e probabilmente ignorano che i manifestanti raccolti al di fuori della Blue Zone per raggiungere lo stesso luogo hanno camminato per due mesi.
Chi è entrato nella Blue Zone mi racconta di un’atmosfera ai limiti dell’euforia. Gli stand dei vari Paesi e delle imprese presenti raccontano di soluzioni tecnologiche compatibili sia con il profitto sia con la sostenibilità ambientale. La Russia propone un più diffuso ricorso all’energia nucleare. L’Arabia Saudita propone di continuare con l’energia fossile, ma con il ricorso alla pratica della cattura e stoccaggio del carbonio. Lo stand dell’Arabia Saudita è contornato da grandi querce trasportate chissà da dove, e quello del Brasile esibisce un’intera parete di vegetazione tropicale. Non ci potrebbe essere esempio più chiaro di greenwashing che espiantare alberi e vegetazione per far apparire più «verde» il proprio stand per le due settimane della Cop26. Non sorprende che una sedicente impresa che produrrebbe interni in pelle per jet privati sia stata ammessa alla Cop26. Una impresa che in realtà non esiste: è stata provocatoriamente creata ad arte per dimostrare come progetti imprenditoriali palesemente contrari alla logica della sostenibilità ambientale potessero comunque essere ammessi alla Cop26 (così infatti è stato). Dietro quest’atmosfera gaia in realtà si nasconde una forte censura del dissenso. Un giovane accreditato che porta una maglietta con la scritta «Tassiamo l’1% per la giustizia fiscale» è bloccato come sospetto e costretto dal servizio d’ordine a coprire la scritta. Chiunque pratichi azioni di dissenso, come esporre uno striscione inneggiante alla giustizia climatica, è immediatamente radiato dalla lista degli accreditati, unitamente al gruppo a cui afferisce, per questa come per le edizioni future della Cop. Elisa, Daniele ed Irene assistono ai lavori della COP26 nell’ambito del progetto internazionale di educazione all’ambiente Visto Climatico e scrivono per l’Agenzia di Stampa giovanile. Lamentano l’impossibilità di accedere a molte sessioni dei lavori, così come la scarsa presenza di giovani accreditati.
Non ci potrebbe essere esempio più chiaro di greenwashing che espiantare alberi e vegetazione per far apparire più "verde" il proprio stand per le due settimane della Cop26
Ma non sono solo i più giovani ad essere assenti. A molti rappresentanti di popoli indigeni, che da secoli abitano foreste a minaccia di disboscamento o di collasso eco-sistemico, e a molti rappresentanti di Paesi a basso reddito, è di fatto precluso l’accesso a Glasgow. Il non essere vaccinati esclude l’ingresso nel Regno Unito, e al momento della Cop26 in Africa solo il 6% della popolazione aveva completato la vaccinazione. All’esclusione per il mancato vaccino si unisce quella di tipo economico. I costi degli alberghi sono esorbitanti: un letto in un dormitorio con altre venti persone costa 200 sterline. Più di un migliaio di cittadini scozzesi partecipano allo Human Hotel», offrendo ospitalità gratuita ai partecipanti alla conferenza. Ovviamente, questo gesto non ha potuto coprire che in minima parte le esigenze di una popolazione ospite che in quei giorni fluttuava intorno ai 100.000 partecipanti. È per questo che Asad Rehman, portavoce della Coalizione Cop26 rappresentante i diritti delle popolazioni indigene, afferma che siano presenti a Glasgow non più di un terzo dei partecipanti attesi dal «Sud globale». Quei pochi esponenti di comunità indigene presenti, vestiti dei loro abiti tradizionali e dei loro suggestivi copricapi di penne d’uccello, denunciano davanti alla barriera della Blue Zone il furto della terra che abitano da millenni ad opera di multinazionali indifferenti al loro destino.
Alla fine, chiedo a molti dimostranti quale sia il loro stato d’animo, e se sentano che le loro azioni avranno un impatto, se non oggi in futuro, rispetto all’obiettivo di salvaguardare la stabilità climatica. La risposta è quasi unanime: non ci si faceva illusioni che la Cop26 potesse essere molto diversa dalle venticinque edizioni precedenti. Ma dimostrare in forma non-violenta, e non smettere di farlo, sembra l’unico modo che resta per cercare di preservare il pianeta per le generazioni presenti e future dalle conseguenze più gravi del cambio climatico. L’intento è smuovere le coscienze e premere dal basso sui decisori politici. E una massa di decine di migliaia di persone che si muove dà speranza. Adriana, giovane delegata boliviana, mi dice che al termine di giornate inconcludenti e frustranti all’interno della Blue Zone, l’unica cosa che la motiva a tornare ai lavori il giorno dopo è l’incontro con le persone in raccoglimento al di fuori della recinzione spinata dell’area. Questo spirito di fratellanza e cura della dimora terrestre genera fiducia, ma per arrivare davvero a un cambiamento globale dovrà contagiare molti più animi, tra quelli che ora restano chiusi nell’indifferenza. E dovrà farlo presto.
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