Non è forse questa la prima volta in cui i miei coetanei, nati dopo le guerre mondiali e di fatto anche dopo la fase più acuta e guerreggiata di quella fredda, si sentono sull’orlo del baratro di un terzo, devastante conflitto.

Quando nel pomeriggio di martedì 11 settembre 2001 i media (quelli social di fatto non esistevano, e i giornali online sperimentarono da quel giorno nuove tecniche) cominciarono a trasmettere a getto continuo le immagini di quel che stava accadendo nel centro di New York, mi ero congedato da due mesi dalla Marina militare. Venticinquenne, da ufficiale di complemento tra gli ultimi in Italia, in Accademia avevo studiato storia e tecniche della guerra navale dalla voce di brillanti tenenti di vascello poco più anziani di me, o di capitani di fregata arguti e spiritosi, ormai prossimi al congedo illimitato. Li avevo ascoltati con il distacco dell’osservatore disincantato, raccogliendo una collezione di aneddoti ambientati in altri tempi o in luoghi lontani. Partecipando da difensore a severi procedimenti disciplinari, mi ero dedicato con maggiore applicazione alle questioni giuridiche e amministrative che a quelle propriamente militari, che sembravano quasi un pretesto, in un mondo in cui tra le persone con cui lavoravo c’erano sottufficiali che si arricchivano facilmente in borsa giocando online, come usava in quegli anni d’euforia finanziaria, o che si preparavano a una pensione precocissima collezionando brevetti di volo e di paracadutismo. Naturalmente civile.

11 settembre 2001. Era chiaro: l’attacco portato al cuore dell’Occidente, in modi e proporzioni che non avevano alcun precedente, avrebbe precipitato tutti nella guerra totale

Ricordo distintamente che quel pomeriggio uno dei miei primi pensieri riguardò la drammatica inevitabilità del conflitto universale. Fui certo che sarei stato richiamato, come si diceva, sotto le armi, e questa volta in ben altro modo. Era chiaro: l’attacco portato al cuore dell’Occidente, in modi e proporzioni che non avevano alcun precedente, avrebbe precipitato tutti nella guerra totale. Le uniformi che ancora si trovavano appese nell’armadio, il berretto bianco che conservavo come ricordo di un anno tra i più divertenti della mia vita mi fecero un effetto nuovo e diverso: per la prima volta mi apparvero come concrete minacce, come mòniti circa l’ineluttabilità di un rischio enorme a cui non potevo sottrarmi. Ciò che non era accaduto nemmeno a mio padre, in servizio quarant’anni prima di me come pacifico meteorologo dell’Aeronautica alle prese con modelli matematici per la previsione del vento, sarebbe accaduto a me. Come era accaduto ai miei nonni: in Russia, da dove l’uno era tornato con un piede mutilato per sempre, o nei Balcani, dove l’altro si era salvato da un bombardamento aggrappandosi per ore alla catena dell’ancora di una nave, la cui ruggine gli era rimasta confitta nelle mani.

Nel pomeriggio di quel martedì d’inizio secolo, una "semplice" operazione di polizia internazionale antiterrorismo o una sbrigativa missione affidata a pochi professionisti mi sembravano impossibili, vista la posta in gioco e visto il livello a cui era giunta la violenza dell’attacco. Il conflitto si sarebbe rapidamente esteso e almeno le riserve sarebbero state mobilitate. I congedati giovani riconvocati e destinati a nuovi incarichi: la minaccia potenzialmente era ovunque, anche nel cuore delle nostre città, e il nemico pronto a colpire da terre quasi irraggiungibili, materializzandosi però in luoghi familiari e vicini.

Mi sentivo (ed eravamo forse, se l’immagine ha senso) a un tornante della storia, sottolineato dalla solenne coincidenza calendariale del secolo e del millennio che si aprivano sotto i peggiori auspici. E quasi inevitabilmente formulavo ipotesi sul futuro immediato. Ipotesi errate, come è ovvio. Previsioni condizionate da fatti inauditi e traumatici.

Mi sentivo a un tornante della storia. E quasi inevitabilmente formulavo ipotesi sul futuro immediato. Ipotesi errate, come è ovvio. Previsioni condizionate da fatti inauditi e traumatici

Credo, del resto, che nemmeno i più fini analisti in quei giorni abbiano saputo prevedere davvero quello che sarebbe successo. Qualcuno provò a mantenere i nervi saldi, a esercitare l’equilibrio, a esorcizzare quello che allora si chiamava scontro di civiltà, a cercare vie d’uscita implausibilmente non-violente da quel colossale bagno di sangue, di polvere e di lacrime. Altri, altrettanto umanamente e assurdamente, dettero sfogo alle previsioni più nere, lanciarono le maledizioni più sinistre, o precipitarono nel nichilismo più assoluto. Immaginarono scenari di breve, medio o lungo termine uno più assurdo dell’altro. Ma, a mia memoria (forse ricordo male, forse anche questo ricordo deformato è parte del trauma di quell’esperienza), nessuno seppe antivedere chiaramente il futuro, come se il fumo acre che si spargeva per Manhattan lo rendesse comunque per tutti invisibile.

Di fatto, brancolammo a lungo nella nebbia, anche quando credevamo di avere le idee chiare. Io stesso – lo ammetto – scrissi e pubblicai, quasi per riflesso condizionato, pagine che non ho più voglia di cercare. Lo feci perché lasciare testimonianza di quel che si osservava sembrava più che un obbligo, una necessità, a metà fra la pratica liberatoria e l’impegno vocazionale, o il dovere civile.

Il futuro, del resto, non avrebbe schiuso conseguenze circoscritte; esso non si preparava a uno svolgimento chiaro e conseguente di cause ed effetti, a una catena perfettamente ricostruibile e coerente di ripercussioni. Né le ritorsioni immediatamente dichiarate esaurivano la mole e la complessità degli effetti più veri e più subdoli, che si distesero per anni su tutto il pianeta, Europa compresa. Ma non ebbero, ovviamente, forme prevedibili in quel pomeriggio.

A vent’anni di distanza, le conseguenze di quel giorno – che naturalmente fu descritto a sua volta come conseguenza d’altri giorni e d’altri mali, come effetto più che come causa – mi appaiono (ma mi considero in questa materia un osservatore non professionale, un viandante della Storia) come un groviglio confuso e contraddittorio di colpi e contraccolpi, di azioni e reazioni parimenti sproporzionate e incongrue, di esplosioni e di scontri con tanti sconfitti e forse nessun vincitore. Una cicatrice, in fondo, ancora aperta e destinata a non rimarginarsi, a restare come una delle tante piaghe non sanabili sul corpo deforme della specie umana. È un problema che non può essere risolto ma solo travolto da nuove e più urgenti disgrazie: le uniche vere pietre miliari nello scorrere del tempo.

Il futuro non si preparava a uno svolgimento chiaro e conseguente di cause ed effetti, a una catena perfettamente ricostruibile e coerente di ripercussioni

Ripensare a quel pomeriggio oggi non è certo rassicurante. Al contrario. Sentirsi ancora una volta sull’orlo di un precipizio non mi fa affatto sperare che un giorno i miei figli potranno descrivere questi giorni come scaturigine o come fase culminante di un processo chiaro, con un inizio e una fine, per quanto drammatici o sanguinosi. Con un capo e una coda. Forse le forme esatte del mostro nel cui ventre ci muoviamo senza sapere dove ci porta potranno essere descritte solo da storici talmente lontani da suscitare troppo tardi la consolazione prodotta dalla ricerca di un senso, o della filigrana di un ordine nel caos.

Ciò non dispensa, naturalmente, dal compito di osservare, dall’urgenza di descrivere, dal tentativo di spiegare, che non si potrebbe reprimere nemmeno se una voce dal futuro garantisse che nessuna delle interpretazioni ravvicinate si rivelerà corretta e nessuna delle nostre previsioni si dimostrerà attendibile. Ostinati meteorologi della cronaca e della storia umane (che per quanto ne sappiamo non funzionano come il vento o le maree, complessivamente prevedibili nei loro moti), torniamo a constatare che le uniche profezie che si avverano sono, come nei capolavori della letteratura, quelle formulate post eventum e messe in bocca da chi sa già come va a finire (perché ha scritto la Storia) a privilegiati chiaroveggenti che nella realtà non esistono.

Nella nebbia del reale, analisi e commenti paiono indispensabili ai contemporanei, ma suscitano un sottile disagio in chi, abituato a leggere le pagine del passato remoto, o quelle dei poeti, sa quanto fragili e inadeguate sembreranno le parole dei testimoni, o dei sopravvissuti. Uno dei grandi guasti prodotti dalla guerra – vero scacco della ragione – è che quando essa incombe non è possibile, forse, né tacere giudiziosamente né parlare saggiamente.