A meno di due anni di distanza dall’ultima riforma per l’elezione delle due Camere (riforma varata con la “legge Rosato” n. 165 del 2017), si ripropone oggi in Italia il tema di un'ulteriore riforma elettorale. Come affrontare questo nuovo, difficile passaggio al fine di giungere a una soluzione ragionevole e, soprattutto, utile?

Quando si parla di legislazione elettorale occorre partire da una premessa forse un po’ ovvia, ma che va ricordata. La premessa è che la legge elettorale rappresenta la regola fondamentale – la Grundnorm – del sistema politico e, in quanto tale, essa va inquadrata nell’impianto costituzionale come anello di congiunzione tra Costituzione formale e Costituzione materiale. La conseguenza è che, in linea di principio, la legislazione elettorale dovrebbe disporre di un grado di stabilità se non identico quantomeno tendenzialmente comparabile con quello proprio del dettato costituzionale e non variare continuamente secondo le contingenze del gioco politico.

A questo si può aggiungere che in democrazia una buona legge elettorale dovrebbe, da un lato, sul versante del sistema politico, rappresentare con sufficiente obbiettività la consistenza delle forze in campo e, dall’altro, sul versante dell’impianto istituzionale, proiettare efficacemente questa rappresentazione nel funzionamento della macchina costituzionale, con riferimento particolare alla funzione legislativa ed alla funzione di governo. Obbiettività nella rappresentazione ed efficacia nella proiezione sono, dunque, i criteri-guida che dovrebbero ispirare sempre una buona legislazione elettorale e indurre a ricercare, in relazione ai diversi impianti politici, il giusto punto di equilibrio tra il principio proporzionale e il principio maggioritario.

La riforma di cui oggi si parla viene richiamata, come sappiamo, tra gli obbiettivi programmatici del governo in carica alla luce di un accordo politico orientato, a quanto pare, verso l’abbandono del principio maggioritario che ispira ancora in parte il sistema vigente, a un ritorno verso un sistema proporzionale puro o, quanto meno, più rafforzato rispetto alla disciplina in vigore.

A sostegno di questo orientamento si adducono in sostanza due motivazioni. La prima, di carattere prevalentemente formale, collega la recentissima riforma alla riduzione del numero dei parlamentari, riduzione che, ove non fosse completata dall’adozione di un sistema proporzionale, rischierebbe di ridurre eccessivamente lo spazio riservato alle minoranze e, al Senato, la stessa rappresentanza di alcune regioni. La seconda motivazione, più esplicitamente politica, collega invece il ritorno al proporzionale (puro o comunque rafforzato) con la finalità di contrastare la possibile vittoria alle prossime elezioni della Lega, che è oggi il maggiore partito della destra. Ed è proprio per contrastare questa finalità legata alla politica contingente che la Lega ha promosso, attraverso otto regioni, un referendum popolare diretto ad abrogare l’intera quota proporzionale della legge vigente (riferita a quasi due terzi dei collegi), così da trasformare l’attuale sistema elettorale in un sistema integralmente maggioritario. Dunque, a parte i dubbi fondati che molti prospettano in ordine all'ammissibilità di tale referendum, quello che oggi si sta profilando è lo scontro tra due sistemi radicalmente contrapposti, cioè tra un proporzionale puro (o quasi puro) e un maggioritario (puro o quasi puro), che verrebbero a trovare il loro sostegno in due opposte maggioranze: il proporzionale nella maggioranza parlamentare che attualmente sostiene il governo ed il maggioritario nella maggioranza popolare che si ritiene esistente a favore della Lega. Situazione, quindi, del tutto inedita nella nostra storia costituzionale e, forse, non priva di rischi.

In presenza di questo stato di cose verso quale riforma possibile può risultare oggi conveniente orientarsi? Prima di giungere alla scelta di un determinato sistema elettorale occorre innanzitutto riflettere su quelle che sono le coordinate fondamentali in grado di guidare tale scelta.

La prima coordinata riguarda la stessa natura della legge elettorale che, come sopra si accennava, è legge direttamente complementare dell’impianto costituzionale. Questa natura porta sicuramente a giustificare come necessaria una riforma elettorale conseguente alla modifica dell’impianto parlamentare, sia in relazione alla prevista riduzione nel numero dei parlamentari, sia in relazione al probabile futuro passaggio a una riforma anche delle funzioni delle due Camere nella prospettiva di un bicameralismo differenziato. Molto meno giustificata risulterebbe, invece, una riforma elettorale che fosse in prevalenza orientata verso il fine contingente di battere nelle prossime elezioni gli avversari. E questo non solo perché l’uso congiunturale e strumentale della legge elettorale rappresenta una prassi costituzionalmente scorretta, ma anche perché, alla luce delle esperienza del passato, tale prassi si è dimostrata anche poco efficace (e spesso controproducente) in relazione alla crescente volatilità del nostro corpo elettorale. Basti solo ricordare a questo proposito il fallimento delle finalità contingenti e strumentali perseguite sia con la riforma elettorale del 2005 (con la “legge Calderoli”), che condusse in prima battuta alla vittoria del centrosinistra, sia con la riforma elettorale del 2017 (con la “legge Rosato”), che ha condotto alla netta affermazione di quella forza (il Movimento 5 Stelle) che con la legge di riforma si intendeva contrastare.

La seconda coordinata che converrebbe oggi tener presente attiene all’insegnamento che è possibile trarre dalla storia dei sistemi elettorali adottati nel corso della nostra esperienza repubblicana. L’Italia, come sappiamo, ha utilizzato per 45 anni nelle due Camere un sistema proporzionale pressoché puro, che ha potuto funzionare sia perché temporalmente connesso a una Costituzione che nasceva su di un impianto fortemente garantista sia perché sorretto da un sistema di partiti stabili e bene organizzati.

Dopo la crisi del sistema dei partiti e il referendum del 1993 si è passati (con la “legge Mattarella”) a un sistema prevalentemente maggioritario (con la presenza di una quota proporzionale pari al 25%) che ha operato per 12 anni, avviando un impianto di governo bipolare (con tre governi di centrodestra e due governi di centrosinistra), che si è trovato, peraltro, sempre in difficoltà per le sue divisioni interne e che alla fine ha cessato di funzionare per l’evoluzione del nostro sistema verso una forma di tripolarismo. Sono poi seguite le riforme del 2005 e del 2017, che hanno riportato l’asse del sistema verso un modello proporzionale corretto dalla presenza di meccanismi maggioritari, quali il premio di maggioranza previsto dalla “legge Calderoli” e la presenza di oltre 1/3 di collegi maggioritari prevista dalla “legge Rosato”. L’esperienza degli ultimi 25 anni ci mostra, quindi, come il nostro Paese, dopo il crollo dei partiti tradizionali, non abbia mai utilizzato un sistema puro (né proporzionale né maggioritario), ma abbia sempre cercato di combinare in misura diversa i due sistemi al fine di individuare un punto di equilibrio ragionevole tra rappresentanza e governabilità. Questo punto di equilibrio almeno sinora – per l’uso improprio e strumentale che si è fatto della legislazione elettorale – non è stato raggiunto, ma questo non esclude che, proprio alla luce dell’esperienza del passato, l’adozione di sistemi elettorali “misti” in grado di combinare tra loro tecniche sia proporzionalistiche che maggioritarie rappresenti ormai un elemento rispondente a un’esigenza strutturale di un sistema politico disomogeneo e frammentato qual è il nostro.

Una terza coordinata riguarda, infine, le indicazioni che in materia di sistemi elettorali ha offerto negli anni recenti la Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 2014 (riferita alla “legge Calderoli”) e con la sentenza n. 35 del 2017 (riferita all’“Italicum”, cioè alla legge elettorale varata dal governo Renzi, ma mai entrata in funzione). Con queste due sentenze la Corte, com’è noto, non ha fatto una scelta determinata, ritenendo sia i sistemi proporzionali che i sistemi maggioritari compatibili con il nostro modello costituzionale, ma ha tracciato alcuni confini per ambedue i modelli. Confini che escludono, nel maggioritario, la possibilità di introdurre correttivi al proporzionalismo (come il premio di maggioranza o il ballottaggio) sganciati dalla previsione di una soglia minima di accesso. Il principio di fondo che è venuto a ispirare queste sentenze è che i meccanismi maggioritari che la legge elettorale può adottare per dare stabilità ai governi devono svolgersi entro margini di ragionevolezza, evitando di creare squilibri eccessivi tra la maggioranza dei rappresentati nel Paese e la maggioranza dei rappresentanti in Parlamento. Su questa linea anche la Corte – pur senza poter dare indicazioni dirette e positive - sembra quindi aver indicato come preferenziale la strada dei sistemi “misti”, dove rappresentanza e governabilità possano essere bilanciate secondo un equilibrio ragionevole.

La conclusione che si può trarre dal richiamo a queste condizioni preliminari da tener presenti ai fini della costruzione di una riforma elettorale adeguata alle caratteristiche del nostro sistema politico e del nostro impianto costituzionale è, dunque, a mio avviso, questa. Quando si affronta, con riferimento all’attuale realtà italiana, una materia tecnicamente complessa e politicamente delicata come quella della legislazione elettorale, la linea di fondo da seguire dovrebbe tenere presente che la maggiore patologia del nostro sistema politico riguarda – come la storia ha sinora ampiamente dimostrato – tanto la sua disomogeneità di base (che spinge naturalmente a favorire come strumento di garanzia il metodo proporzionale) quanto la sua abnorme frammentazione (che spinge, invece, a privilegiare per il suo contenimento il metodo maggioritario). Da qui la necessità della ricerca di un corretto punto di equilibrio tra i due modelli cui sopra si accennava. Detto questo bisogna anche considerare che già oggi disponiamo di un sistema proporzionale corretto da un meccanismo maggioritario legato alla presenza di collegi uninominali. Forse la linea migliore da seguire potrebbe essere, dunque, quella di intervenire sulla misura di questa correzione ovvero di adottare un diverso correttivo maggioritario che potrebbe essere quello di introdurre nel proporzionale o un’elevata soglia di sbarramento o un premio di maggioranza legato a una soglia di accesso e graduato in base al consenso ricevuto. Ma in ogni caso occorrerebbe, rinunciando a passaggi troppo bruschi e radicali, evitare il rischio maggiore che la riforma sembra oggi presentare e che, a mio avviso, non è tanto quello di consentire all’avversario di conquistare le chiavi del governo (peraltro con la ragionevole aspettativa di poterle presto recuperare), quanto di trasformare il Parlamento in una assemblea non in grado di esprimere una maggioranza. E, per questo, impotente.

 

[Questo articolo riprende l'intervento dell'autore al Seminario (riservato) Astrid su "Quale riforma della legge elettorale per la Camera ed il Senato", Roma, 26 settembre 2019]