A dispetto di alcuni iniziali commenti e delle prime reazioni dei mercati, la recente decisione della Corte federale tedesca non annuncia la fine dell'unione monetaria. Il giudizio della Corte di Karlsruhe comporta però conseguenze politiche che aggiungono confusione in un contesto economico ancora incerto a causa della crisi del Coronavirus e, soprattutto, creano implicazioni sulla sostenibilità dell’Eurozona e dei delicati equilibri decisionali che la sottendono.

Pur non avendo dato seguito al ricorso presentato da esponenti della destra tedesca, Karlsruhe ha però inserito nella propria sentenza commenti che hanno suscitato preoccupazione circa i risvolti sulle relazioni tra diritto primario Ue e diritto costituzionale tedesco. In questa prospettiva è comprensibile la risposta immediata e senza precedenti espressa non solo dalla Corte di giustizia, ma anche dalla stessa presidente della Commissione Ursula von der Leyen.

La decisione della Corte tedesca si inserisce in un solco ormai profondo di dialettica istituzionale e giuridica tra i due ordinamenti, che necessita un rapido excursus storico sui fondamenti della questione

La decisione della Corte tedesca si inserisce in un solco ormai profondo di dialettica istituzionale e giuridica tra i due ordinamenti, che necessita un rapido excursus storico sui fondamenti della questione. Tale percorso si apre con l’estensione e la nuova articolazione delle competenze stabilite dal Trattato di Maastricht, che hanno comportato un necessario adeguamento degli ordinamenti degli Stati membri, processo avvenuto in Germania con l'approvazione da parte del Bundestag di un'apposita modifica all'art. 23 Grundgesetz, nel dicembre 1992.

L’anno seguente, con la sentenza Maastricht-Urteil, i giudici di Karlsruhe esplicitano per la prima volta la propria concezione della nuova natura giuridica dell'Unione, individuando nel rispetto del principio di sussidiarietà e nel ruolo del Bundestag e del Bundesrat le condizioni per la legittima attribuzione delle competenze all’ordinamento europeo.

Secondo questa interpretazione, la sovranità rimane quindi in capo alla Germania, così come a tutti gli altri Stati membri, mentre spetta al Tribunale costituzionale federale il controllo degli atti delle istituzioni europee al fine di verificare il rispetto dei limiti dei poteri a questi devoluti (da qui l’annosa questione ultra vires ampiamente citata in questi giorni). 

Dopo pronunciamenti ulteriori accompagnati anche da un’ampia dottrina accademica, una tappa fondamentale nella dialettica tra le Corti di Lussemburgo e Karlsruhe arriva con la sentenza Lissabon-Urteil sulla ratifica del Trattato di Lisbona nel giugno 2009. La Corte tedesca rigetta il ricorso in merito al presunto svuotamento del ruolo del Bundestag in conseguenza del nuovo trasferimento di competenze politiche all’Unione e si pronuncia in merito al contestato deficit di legittimazione democratica dell'Unione europea.

In continuità con il precedente approccio, la Corte tedesca argomenta la propria posizione nell’ottica della tutela del diritto di voto, che si misura sul potere degli elettori di “concorrere in permanenza a determinare la legittimazione popolare dei poteri pubblici e di condizionare il modo in cui sono esercitati”. La Germania quindi può cedere parte della propria sovranità alle istituzioni europee a condizione che i meccanismi della democrazia rappresentativa vengano garantiti anche a livello sovranazionale. Allo stesso modo, un'ulteriore integrazione è possibile purché avvenga nel rispetto dei principi e degli organi costituzionali degli Stati membri: da qui deriva la definizione del ruolo della Corte di Karlsruhe come soggetto deputato a verificare la costituzionalità dell’integrazione europea.

La Germania quindi può cedere parte della propria sovranità alle istituzioni europee a condizione che i meccanismi della democrazia rappresentativa vengano garantiti anche a livello sovranazionale

La continua rivendicazione della specificità democratica nazionale tedesca, come sollevata ripetutamente dalla Corte di Karlsruhe, si pone in contrapposizione dialettica – non necessariamente in modo ostativo – alla questione del deficit democratico dell'Unione. È proprio su questo contrappunto che va letta la recente decisione sulla politica monetaria della Bce. Oltre a sottolineare l’ipotetica premessa di un’attitudine proattivamente distruttiva nei confronti dell’integrazione europea, sarebbe altrettanto interessante riflettere se, invece, tale atteggiamento possa essere valutato come disponibilità dello Stato tedesco – tramite la propria Corte costituzionale – a cedere parte della sovranità a condizione che gli essenziali caratteri di democraticità vengano sempre garantiti ai cittadini.

Un altro tassello della vicenda è stato posto dalla decisione del gennaio 2014, con la quale viene previsto, per la prima volta nella storia della Corte tedesca, il rinvio pregiudiziale dinanzi la Corte di giustizia europea. Il pronunciamento in questione ha per oggetto le operazioni monetarie Omt stabilite nel 2012 dalla Banca centrale e conferma in modo netto la richiesta di democraticità come elemento fondamentale per il controllo dell’integrazione europea. Non basta infatti che il Bundestag approvi eventuali decisioni, ma occorre assicurarne una sua sufficiente influenza sulla gestione. L’Eurozona – questo è il senso dell’argomentazione – ha una governance ancora caratterizzata da scarsa legittimazione democratico-rappresentativa, essendo tutta centrata sui governi. Per questo, secondo la Corte, i deputati devono conservare il controllo sulle principali decisioni politiche di bilancio.

L'atteggiamento prima facie rigido e antieuropeista tenuto della Corte tedesca nelle decisioni fin qui delineate è comprensibile se si tiene conto di questa sensibilità di fondo e della percezione di un deficit democratico ancora irrisolto. Nel momento in cui l’Ue ha iniziato a porre le basi per un'unione monetaria e politica, il Tribunale tedesco ha richiamato l’attenzione sull’assenza dei presupposti parlamentari e democratici per compiere tale salto. 

Ancora una volta, il decennio della crisi economico-finanziaria – con la sua incapacità di dare risposte adeguate – presenta ora il conto, non solo sul versante sociale e della crescita, ma sempre di più anche sul piano istituzionale.

Gli strumenti di coordinamento in materia di economia e finanza pubblica – le varie revisioni del Patto di Stabilità e Crescita con il Six e Two Pack, seguite poi dal Fiscal Compact e dal Meccanismo di stabilità – non sono infatti stati collegati a un rafforzamento dei meccanismi di partecipazione e controllo da parte dei Parlamenti nazionali né dal pieno coinvolgimento del Parlamento europeo. Al contrario, secondo i vari giudizi della Corte tedesca, la cessione delle competenze a livello sovranazionale, conseguente all'evoluzione del sistema europeo dopo Lisbona, può avvenire solo a patto che gli Stati non perdano la propria autonomia politica o che si compia uno scatto formale di sovranità in direzione europea.

Una comprensione del senso storico entro cui si inserisce la dialettica tra le Corti di Lussemburgo e Karlsruhe è pertanto indispensabile per comprendere le possibili vie d’uscita da un rischio di confronto istituzionale e, soprattutto, per riconoscere le piste da seguire per uno sviluppo democratico ulteriore della governance europea.

È un percorso, quello del rapporto tra Germania e Europa, che la storiografia recente ha definito nel quadro del cosiddetto Sonderweg, ovvero della particolarissima evoluzione costituzionale e democratica che ha portato la questione tedesca a plasmare le stesse istituzioni europee, centrate sui principi cardine del federalismo, del costituzionalismo, della sussidiarietà, dell’economia sociale di mercato.

In linea con questo percorso, secondo alcune interpretazioni, l’impostazione prettamente federale della statualità tedesca – dal Sacro Romano Impero a oggi – renderebbe ancora più facile accompagnare proprio in Germania un passaggio dalla sovranità nazionale a quella pienamente europea. In un qualche modo, quindi, la dialettica costante che esprimono le decisioni di Karlsruhe tra dimensione federale, centrale e sovranazionale – tra elementi istituzionali premoderni e postmoderni – portano in modo definitivo a sottolineare tutte le riforme ancora mancate nell’ordinamento europeo, che rimane un ibrido tra la categoria pienamente comunitaria di alcune di istituzioni (Corte di giustizia e Banca centrale, non a caso al centro della tempesta) e quella intergovernativa rafforzata per altre.

È proprio dentro quest’ultima dimensione che i Paesi membri sono chiamati ad assumere decisioni di svolta, per fare chiarezza sulla governance dell’Eurozona – in primis sul limite discrezionale tra politica monetaria e politica economica – e per cessare di delegare alla zona grigia di azione della Bce quello che i governi non sono riusciti a trovare il coraggio di fare. È fin troppo evidente, in questo scenario, che sarà la Germania la prima a dover sciogliere alcuni nodi istituzionali e politici in Europa. Sarà Berlino, soprattutto, a dover trovare una strada che la porti a uscire dal proprio scomodo ruolo di potenza egemone riluttante e, contestualmente, dal rischio di cadere in un pericoloso isolamento, come Helmut Schmidt paventava nel suo ultimo discorso pubblico al congresso Spd a dicembre 2011.